venerdì 18 maggio 2018

Corinnah

Quando, due anni prima, aveva fatto le vacanze ad Agadir, in Marocco, fece un'escursione di due giorni ai margini del Sahara. Man mano che la carovana, lentamente, seguiva la pista, Corinnah percepiva intorno a sé un silenzio sempre più denso.
Era come essere circondata da un nuovo mare, non più blu e meno mobile, ma altrettanto affascinante. Portatore di pace infinita; la stessa sensazione di assoluto che solo poche spiagge, dopo il tramonto, le avevano dato.
Col passare delle ore l'aria era diventata così calda e asciutta, nonostante fosse maggio, che Corinnah si sentiva soffocare. La carovana si era fermata in un’oasi, una ventina di grosse tende, alcune collegate fra loro da piccoli passaggi. Un pozzo. Due palme. Nel momento di maggiore calura l'ombra che davano le tende e la corrente d'aria che riuscivano a creare la aiutarono a respirare.
Mangiare con i Tuareg fu piacevolissimo: Corinnah comprese che per mangiare assieme non c'è bisogno di parlare la stessa lingua. La lingua condivisa è il cibo. Per offrire un piatto non c'è bisogno di parole. Per assaggiarlo, gustarlo e apprezzarlo basta la tua espressione di curiosità, di gioia e di gratitudine.
Quello stufato di montone con il cus cus fatto dalle donne, con la giusta dose di spezie – quante volte Corinnah aveva dovuto buttare via con rimpianto una pietanza resa immangiabile dalle troppe spezie che ci aveva buttato dentro – era delizioso, e per mesi ne aveva serbato il sapore, che riusciva distintamente a recuperare al solo pensiero. Il suo compagno di viaggio, e cavaliere, non era riuscito a emozionarsi per quel piatto e Corinnah ne era rimasta delusa.
Le donne dei Tuareg mangiavano separate, dopo gli uomini che mangiavano con gli ospiti: Corinnah ne era infastidita perché la trovava una cosa ingiusta, anche se aveva notato che quelle ragazze trovavano la cosa assolutamente normale.
La sera, dopo una corsa sui cammelli fra le dune spostate dal vento, la cena, fuori dalle tende, era stata più ricca, illuminata da piccoli falò. Le ragazze avevano ballato e dopo poco Corinnah si era unita a loro. Le piaceva ballare, cosa per lei naturale. Era armoniosa e spontanea nei movimenti e aveva presto imparato i gesti del loro volteggiare.
Quella notte andarono a dormire tardi, con l'accampamento illuminato soltanto dai bagliori delle braci che si stavano spegnendo. Era spossata: aveva ballato per ore e aveva perso la nozione del tempo. L'orologio l’aveva lasciato a New York.
Nel sacco a pelo si girava senza riuscire a prendere sonno: doveva smaltire l'eccitazione che la danza le aveva portato e che il té forte aveva rinforzato. Il compagno di viaggio, sdraiato al suo fianco, russava leggermente, a intervalli regolari. Un caro ragazzo e un buon giornalista, nulla di più.
A un tratto, mentre il cielo incominciava a schiarire, sentì intorno a lei dei sospiri inconfondibili. Non avrebbe saputo dire da dove venivano: erano intorno a lei. Sulle prime le venne da ridere: le tende non sono l'ideale per la privacy. Ma non riuscì a distogliere l'attenzione. Si chiese quale delle ragazze che avevano danzato con lei potesse essere; tutte erano molto belle e ognuna poteva regalare a un uomo una notte d'incanto.
La frequenza e l'intensità dei sospiri aumentava. Quello della donna più lentamente, quello dell'uomo a poco a poco diventava un grido trattenuto.
Corinnah fu presa da una frenesia incontenibile. Mise la mano dentro il sacco a pelo del compagno di viaggio e sorrise, immaginandosi il sogno che stava facendo. Si avvicinò alla sua bocca e gli diede un morso sulle labbra; con un secondo morso lo svegliò; gli impedì di parlare mettendogli la lingua nella bocca. Aprì completamente la cerniera del sacco a pelo e gli saltò sopra. Si era già sfilata gli slip. Lui era completamente sveglio: incredulo di tanta fortuna non si tirò indietro. Corinnah, sollevata sul corpo di lui, incominciò a ondeggiare con lo stesso ritmo dei sospiri che sentiva intorno. Ascoltavano in silenzio la voce soffocata del piacere intorno a loro e la fecero propria.
Al mattino Corinnah era convinta di avere sognato, non solo lei.

mercoledì 16 maggio 2018

PARIS


Per quei pochissimi giorni il nostro amore era stato incredibile.
Ricordo con precisione le sensazioni di quei mesi – anche se non ricordo quanti – in cui gli scambi di mail diventarono via via più frequenti e personali, fino ad arrivare a condividere fatti e notizie in sé banali, utili soltanto a far accendere quel pallino verde nel computer.
Ricordo anche quel giorno in cui, per nulla titubante, mi invitò a prendere un caffè a casa sua. Gli slip erano color carne.
Mi mandò a quel paese quando le dissi che c'era anche un'altra, a pochi isolati dal suo attico. Pretendeva qualcosa che io non posso dare a nessuna.

Mi sbuca improvvisamente di fronte questo pomeriggio, nella terrazza panoramica della Tour Montparnasse.
Devo stare due giorni a Parigi per cenare con un funzionario del ministero della Difesa e proporgli la mia mercanzia: venti carri armati, pressoché nuovi, dismessi dall'esercito del Senegal. L'esercito francese ne è sempre carente, e il prezzo è interessante. Prima di cena ritaglio due ore tutte per me e vengo qui ad ammirare la Ville Lumière al tramonto, tanto per svuotarmi il cervello.
Me la vedo uscire dall'ascensore, così vicina da non poter far finta di non vederla: adesso ho altri ami a cui voglio stare dietro...
Ciao!”, ha lo stesso sorriso dolcissimo, quello di cui mi ero innamorato. Si mette al mio fianco e, dopo un attimo, cerca la mia bocca. E' sempre riuscita a stupirmi. Ha due anni più di me ma il calore della sua lingua è quello della prima ragazza che ho baciato. “Stringimi forte!” mi sussurra a un orecchio. “Ma dove cazzo eri finita, brutta stronza!” mi verrebbe da dirle, ma non mi fa parlare.
Si stacca bruscamente tenendomi la mano, poi la lascia.
Va incontro a un uomo appena uscito dall'ascensore, certo più vecchio di me. “Quanto hai impiegato ad arrivare , tesoro!!” cinguetta “Ho perso tempo per comperarti questo”. E tira fuori dalla tasca un pacchetto. Sono abbastanza vicino da riconoscere sulla carta il logo di Cartier. L'avrà comperato a Place Vendôme, il vecchio.
Vorrei aspettare per vedere cosa c'è dentro ma mi infilo dentro l'ascensore e scappo, con la coda fra le gambe e il dubbio di avere sognato. Ma ho una piccola ferita nel labbro.
Stasera, dopo la cena d'affari, me ne andrò a Pigalle.

martedì 15 maggio 2018

Kate

Con il posto di ruolo, che in quell'Ateneo non sarebbe durato per molti anni, era arrivata la stabilità economica ed era comparsa Kate.
Si incontrarono a una conferenza, alla Bobst Library, promossa dalla Cornell University, dove lei insegnava. Gray, ogni giorno della sua vita futura, avrebbe ricordato quel giorno fin nei più minuti particolari. Erano in una sala non molto grande, tutti seduti attorno a grossi tavoli ad ascoltare il relatore che parlava dal tavolo più lontano dalla porta, con una voce così bassa da obbligare al silenzio più assoluto. Era uno studioso di filosofia medioevale e, sorridendo fra sé, Gray immaginò che avrebbe ben potuto essere un uomo di quel tempo. Nobile o servo della gleba? Chierico vagante? Menestrello? Cercò di concentrarsi sull'argomento della relazione, gli scritti giovanili di Pietro Abelardo ma, fatalmente, pensava al volto che poteva avere Eloisa e alla passione che quel viso aveva incendiato in Abelardo.
Gray era andato a quella conferenza con il collega di filosofia teoretica, più per tenergli compagnia che per reale interesse. Girava con lo sguardo cercando qualche ragazza di colore. In biblioteca c'era freddo: gli alti finestroni, ai due lati della sala, facevano filtrare l'aria già umida dell'autunno. Aveva sentito dire che al nord era già arrivata qualche spruzzata di neve.
La dottoressa Kate Evans era assistente volontaria della cattedra di Filosofia della Scienza della Cornell University, laureata da due anni. Non aveva pressante bisogno di un posto di lavoro retribuito, infatti la famiglia le inviava dal Vermont cospicue rimesse mensili, derivate dall'azienda paterna di produzione del latte, e lei poteva dedicarsi gratuitamente alla ricerca e alla didattica. Preparava le lezioni per il docente di ruolo e aveva la soddisfazione di vedergliele leggere senza cambiare una virgola. Ma agli esami, di fronte agli studenti, spesso con una preparazione raffazzonata, era troppo poco severa e per questo più di una volta era stata rimproverata: non poteva promuoverli tutti. Il rapporto fra promossi e bocciati non doveva essere alterato.
Dopo gli applausi di rito al medievalista, per rompere il ghiaccio fu Kate ad aprire la discussione, facendo la prima domanda. A Gray sembrò molto preparata e la ascoltò volentieri. Non si era ancora accorto di lei. Una ragazza minuta, con una camicetta bianca di cotone alla coreana e una rebecchina blu notte. Dato che parlava in piedi Gray poté vederle le gambe, anche se la gonna a tubino non era molto corta. Ritornò ad ascoltarla.
Le domande e le risposte durarono più della conferenza stessa: un bel successo.
Al termine si trasferirono tutti nella sala del brunch, vista l'ora: Gray ricordava che era l'una passata. Nel brusìo generale la vide avvicinarsi e ne fu contento e sorpreso. Kate lo conosceva perché si erano telefonati in passato. “Professor Gray, si ricorda di me? Ci siamo conosciuti al telefono ma non ancora di persona.”. “Certo dottoressa” mentì sorridendo. “Vederla di persona è molto più piacevole che sentirla al telefono. A proposito: complimenti per la sua domanda: rivela una padronanza della materia non comune”. “Non le nascondo che in un certo senso era concordata”. Rise in maniera così confidenziale che Gray restò a bocca aperta. Kate l'aveva notato appena entrato, e si era fatta dire dalla sua amica, quella che conosceva tutti, chi fosse. Non avrebbe saputo spiegarsi cosa le piaceva di lui: quel cespuglio di capelli ramati quasi calato a nascondere gli occhiali, quell'aria ingenua e decisa a cambiare il mondo che avevano avuto i giovani nel '68. Chissà...

venerdì 11 maggio 2018

Ada

Incomincio oggi la pubblicazione di sparsi brani presi, non a caso, dal romanzo che sto scrivendo.

Pensò a Corinnah. Voleva averla di nuovo, anche se era la donna di suo fratello. Chissà che lui non avrebbe fatto lo stesso: con le donne Roddy non era uno stinco di santo. Anzi.
Ricordava bene Ada, quella giovane italiana che aveva conosciuto in consolato. Una bellezza profondamente italiana, con lunghi capelli scuri, incurante della sensualità che emanava da ogni gesto e da ogni parola. Incurante ma totalmente consapevole. Nelle sue mani gesti e parole erano armi.
Vedendolo passare a fianco a lei aveva lanciato a Sean uno sguardo molto espressivo, perché si era accorta che la coda per ottenere il visto era insopportabilmente lunga. E lui aveva capito tutto al volo. “Please, Miss, come into my office!”. Le aveva offerto il braccio e l'aveva fatta sedere davanti alla sua scrivania. Il timbro glielo era andato a mettere lui, passando dietro il bancone ma non così accortamente da non suscitare, nelle persone in coda, grida, risate e qualche insolenza per quella bella italiana, “Bitch, puttana”. Tanto lei non poteva sentire e anche se avesse sentito non avrebbe fatto una piega. Sean entrò in ufficio con la carta timbrata in mano e sbatté la porta. Nessuno si sarebbe permesso di entrare. Si sedette sulla sedia a fianco della donna, che aveva già compreso, e deciso, come ringraziarlo.
Non era alta, Ada, ma aveva un corpo aggraziato e rotondetto, con le curve regolari e al punto giusto. Nella sua Sorrento le avrebbero detto “Si proprio 'nu babbà.”. La si guardava con il desiderio di morderla, ma senza farle male.
Lei si alzò, si voltò verso di lui e, alzando leggermente la gamba destra, si sedette sulle sue gambe. La corta gonna le si sollevò ancora di più e Sean, appoggiando le mani dove prima c'era la gonna, la spinse contro di sé. Quella donna sconosciuta baciava con forza e delicatezza: lui la lasciò fare in silenzio, gustando l'energia di quella lingua. La spingeva ritmicamente verso di sé e lei, appoggiandosi sui tacchi, lo assecondava. Sean riuscì a sentire il calore bagnato in mezzo alle gambe di lei: stava oltrepassando quel punto oltre il quale non avrebbe capito più niente e agito senza pensare, come un animale assetato. Le slacciò i bottoni della camicetta con i denti e affondò il volto fra i suoi seni. Ada, slacciandosi il reggiseno, gli mormorò, in italiano, “Ti piacciono?”. Lui non capì ma continuava ad accarezzarglieli.
Non aveva paura dei rapporti occasionali, Sean. Tante volte aveva rischiato la vita che la possibilità di un'infezione di quella nuova malattia di cui si parlava non gli passava neanche per l'anticamera del cervello. Non rifletté neanche sul fatto che tanta disponibilità potesse essere concessa non solo a lui. Finirono per terra, con le bocche incollate per non far sentire l'ànsito dei loro corpi annodati. Una mezzora da leoni. Sean le offrì un bicchiere di quel Mezcal Añejo che talvolta il console gli regalava. Quello con la larva dentro. Finalmente le disse “Come ti chiami?”. “Ada Prisco”. “Io sono Sean”.
Si videro spesso nelle settimane successive, e i loro rapporti sessuali furono indimenticabili perché sempre furiosi. Ada aveva in mezzo alle gambe il fuoco del Vesuvio, nascosto, prontissimo ad esplodere.
L'unico errore che Sean fece con lei fu quello di presentarla a Roddy. Lo incontrarono per caso un pomeriggio, dopo una delle loro migliori notti, seguita da una padellata di gamberi carabineros infiammati con il bourbon. Uscirono alle quattro diretti a Central Park, per godersi un po' di sole. Roddy riconobbe il suo fratellastro da lontano, stupito che fosse riuscito a portarsi in giro una donna così bella. Quel giorno era appena andato al salone di Nunzio Saviano e i suoi capelli, corvini, erano perfetti. E infatti lui era andato a farsi un giro con il desiderio di essere ammirato: sapeva di essere vanitoso.
Bastò l'occhiata che Ada ricambiò a Roddy per far capire a Sean che quella notte era stata l'ultima volta: non poteva, non voleva competere con Roddy: aveva verso di lui un sentimento di inferiorità.
Non la vide più per molti mesi: non l'aveva mai pensata come “la sua donna”, e tanto meno come “il suo amore”, ma vedersela scomparire così lo lasciò con la sensazione di qualcosa di tristemente incompiuto.
Più di un anno dopo, saranno state le tre e mezzo di notte, la rivide passando per Jackson Heights,
al ritorno da una missione per conto del governo svizzero. Truccata pesantemente, con una gonna ancora più corta di quella che aveva quel giorno in consolato, e uno sguardo avvilito. Quando lei lo riconobbe si voltò per non doverlo salutare. Del resto lui andava di fretta. Un gran bastardo, Roddy: l'aveva buttata in mezzo a una strada.
Ada sarebbe rimasta dentro di lui, assieme al dolore di non aver potuto, o voluto, salvarla.