martedì 9 gennaio 2018

VITA SPIRITUALE DELLA PITÌNGOLA

Ersilia, da tutti chiamata Pitìngola, non credeva di avere anche un altro nome. Quando a scuola le dissero che quei segni sul quaderno erano il suo nome e il il suo cognome "veri", non voleva crederci. Il Maestro più di una volta aveva usato la bacchetta quando Ersilia Degliangioli non aveva risposto all'appello. Solo dopo alcuni mesi incominciò a convincersi che Pitìngola fosse un nome affettuoso usato dai genitori, dai fratelli e dagli altri bambini con cui giocava nell'aia della vecchia casa dei nonni, mentre Ersilia Degliangioli, che incominciava a scrivere con difficoltà, era il nome usato in quella scuola, che sentiva estranea anche se imparava cose che la interessavano molto.
Era per questo che la mattina alle sei e mezzo saltava sul biroccio guidato dal vecchio Toni, assonnata ma desiderosa di imparare. Quando conseguì il diploma di licenza elementare l'insegnante consigliò alla madre di iscriverla alla scuola media: in famiglia però c'era la necessità che ciascuno desse il proprio contributo e dieci anni bastavano per andare a prendere l'acqua alla fonte tre volte al giorno - ai rintocchi delle sei, di mezzodì e all'Ave Maria -, per imparare a cucinare senza buttare via niente, neanche le bucce delle patate, e per tenere pulito il pollaio. Le galline quando alle sei la vedevano entrare la salutavano "Pitìngola, Pitìngola", almeno così a lei sembrava. Non era infelice ma si sentiva mancare un po' il respiro.
Libri in casa non ce n'erano e solo raramente capitava qualcuno che avesse con sé un giornale. A lui Ersilia chiedeva timorosa di poterlo leggere, dimostrando un tale interesse che gli ospiti ben volentieri glielo regalavano. Lei, al settimo cielo, se lo faceva firmare e datare, per non dimenticare il chi e il quando di un così bel regalo. La sera, assolti i suoi doveri, chiedeva di leggere quel giornale alla luce della candela posta sul tavolo della cena, pur sapendo che rubare un'ora al sonno le avrebbe reso il giorno successivo ancora più faticoso.
Un giornale del 1890 era per gran parte almanacco, e la lettura scatenava viaggi fantastici in posti che non avrebbe mai visto. Aveva anche letto il resoconto di una seduta del Senato del Regno, capendone ben poco, ma non tralasciava nulla. Le pubblicazioni a puntate dei romanzi di Salgari (lei ne lesse solo due) la portarono in un universo incantato e sereno.

Giunse l'età in cui una ragazza deve andare via da una casa per andare a vivere in un'altra, pur facendo le stesse cose, con in più l'incombenza di soddisfare alcune esigenze a lei ignote di un uomo altrettanto ignoto. Anche alla Pitìngola tutto ciò non venne risparmiato e andò nella grande casa sul colle, salutando la sua famiglia con la morte nel cuore.
Al sesto mese di gravidanza svenne per un'emorragia. La nuova famiglia ritenne che poteva valere la spesa di chiamare il dottore, piuttosto che di perdere due robuste braccia, quattro ragionando con un po' di lungimiranza. Chiamarono il Dott. Marini, del Sant'Ambrogio di Mortara, di cui si diceva gran bene, ma soprattutto che facesse le più basse tariffe.
Bartolomeo Marini sarebbe stato un medico atipico anche nel terzo millennio: alla fine del XIX secolo era considerato soltanto un'onta per la professione. Laureatosi a Bologna con Augusto Murri, con lode e pubblicazione della tesi, aveva preferito lasciare da subito una solida e ricca professione per andare a lavorare in un piccolo ospedale al confine fra Lombardia e Piemonte. Le quotazioni economiche erano crollate ma lui aveva trovato un'atea soddisfazione nel mitigare gli insulti della natura e quelli del lavoro nei campi a persone di gran lunga più sfortunate di lui. Braccia restituite alla terra che talvolta gli scrivevano con grafia affaticata biglietti di ringraziamento, i suoi trofei, che andava a rileggersi nei momenti bui. Compilava anche delle parcelle, di nascosto dai cinque colleghi dell'ospedale che, leggendole, l'avrebbero denunciato all'ordine per concorrenza sleale. Ma anche così quattro su cinque restavano inevase.
Viveva come un frate in due stanze mese a disposizione dall'ospedale, una con un lavabo e un letto prelevato da una corsia, l'altra con la scrivania e una piccola libreria a muro. La finestra dava su un cavedio semibuio con tante finestre uguali. Gli angoli del pavimento arrotondati rivelavano la antica natura di ambulatorio dei locali. Il bagno, comune, era nel corridoio. Bartolomeo mangiava poco, uova più che altro, verdura e frutta. Un po' di pane di campagna. La sera la stessa minestra dei pazienti. In compenso leggeva molto. Non era né triste né disilluso. Riuscire a fare una buona diagnosi, riuscire a curare un uomo, se non a guarirlo, erano le soddisfazioni più grandi.

Arrivò alla casa sul colle dopo aver finito il giro in corsia, dove aveva chiuso gli occhi a due tisici. Trovò Pitìngola cosciente, bianca come i fogli della carta su cui scriveva le sue ricette. Lo stetoscopio gli rivelò che il battito cardiaco fetale c'era, se pur debole. La ragazza lo supplicava con gli occhi. Marini pensò che in ospedale forse sarebbero riusciti a portare avanti la gravidanza fino al settimo mese. La signora avrebbe potuto stare a riposo a letto e abbastanza al caldo, le uniche cose di cui aveva bisogno. Il suocero, capo della famiglia, chiese subito quanto sarebbe costata questa soluzione e il dottore glielo disse, precisando che per il vitto avrebbero dovuto provvedere loro. Sul momento il vecchio accettò.
Quel mattino di novembre fu organizzato il trasporto, con una carrozza che Marini pagò di nascosto: continuava ad avere davanti agli occhi l'espressione atterrita di quella madre troppo giovane.
Arrivati in ospedale cercò di accomodarla il meglio possibile nella corsia donne, nel letto più riparato dalle correnti d'aria; le portò una coperta in più e chiese alla suora di portarle qualcosa di caldo. Per l'anemia avrebbe prescritto qualcosa nel pomeriggio.
Pitìngola era frastornata. Dispiaciuta sia per aver causato tanto trambusto sia perché stare a letto tutto il giorno le sembrava una pigrizia inaccettabile. Però stava bene in quel letto con le coperte rimboccate, anche perché sapeva di farlo per il suo bambino. Non si alzava neanche per andare in bagno, perché così le era stato detto. Quel dottore che era venuto a prenderla aveva dimostrato una premura e una cortesia che mai nessuno aveva avuto con lei. Non le aveva chiesto niente e le aveva offerto la possibilità di far nascere suo figlio. Gli era tanto grata per questo ma la sua licenza elementare non bastava a esprimere la riconoscenza come avrebbe voluto. Ma forse per lui era solo lavoro...
Successivamente Bartolomeo ed Ersilia raggiunsero un primo livello di confidenza, sufficiente a permetterle di chiedergli se poteva avere un giornale. Marini non rispose ma da quel giorno, dopo la visita in corsia, le portava qualche pagina del Corriere locale, con racconti o notizie che lui supponeva potessero interessarle. Pitìngola leggeva tutto e dopo qualche giorno gli chiese anche delle spiegazioni. Lui capì di avere a che fare con una persona intelligente e desiderosa di "seguire virtute e conoscenza" e allora nel pomeriggio si sedeva a fianco del letto di lei e parlavano.

Con la seconda emorragia Ersilia perse il bambino. Si sentiva colpevole. Il marito, saputa chissà come la notizia, smise di portarle ogni giorno quel po' di pane e di formaggio (la domenica anche due mele) e non si fece più vedere, così come le rimesse in denaro per la degenza. Bartolomeo, che aveva cominciato a condividere oltre ai giornali strappati anche un po' di sé stesso, proseguì nell'opera condividendo anche il suo pasto. Pezzi di pane con un po' di carne. Il pollo, quando c'era, che a lei piaceva tanto.

Giunse il giorno in cui Pitìngola non fu più anemica e abbastanza in forze da dover essere dimessa. Era giusto un mese che dalla casa sul colle non giungevano più persone né notizie. Incredibilmente lei non sarebbe stata in grado di tornarvi da sola, essendovi entrata al momento del matrimonio e non essendone più uscita. Marini capì che ne era stata estrusa, elemento non più utile all'economia del clan.
Si rivolse alla Madre Superiora, chiedendole consiglio e aiuto. La donna lo conosceva come uomo perbene e si era accorta della cura particolare che lui aveva mostrato per quella ragazza. "Potremmo farle fare l'inserviente qui in ospedale, almeno per qualche tempo", gli disse, "Il vitto e l'alloggio li avrà e non farà certo una vita più faticosa di quella che ha fatto finora.". "Grazie, suora, dio te ne renderà merito". "Lo so". Con un colpo solo la suora aveva risolto due problemi.

Ersilia, Pitìngola anche per tutto l'ospedale, assisteva il medico e la suora infermiera nel giro del mattino e nella controvisita del pomeriggio. Imparò presto perché era pulita e volenterosa. Quando era vicina a lui intuiva le sue richieste guardandolo negli occhi: prima ancora che lui parlasse lei gli porgeva già le garze o il bisturi.
La loro confidenza non sarebbe mai diventata intimità ma il giornale lo leggevano insieme la sera nel refettorio, dopo la minestra, ed entrambi credevano di essere felici.

Quando Bartolomeo trovò le feci del colore della pece comprese il senso definitivo dei disturbi che da un po' di tempo lo affliggevano, compreso quel bruciore di stomaco sordo e continuo che il bismuto non riusciva a sedare. Sapeva che anche i medici devono morire e cercò di farlo con lo stesso stile con cui era vissuto. Ancora una volta la Superiora gli fu di grande aiuto.
"Il mio morire tranquillo corrisponde al sapere che qualcuno si prenderà cura di lei. Se credi mi faccio battezzare, confessare, comunicare, cresimare e dare l'estrema unzione tutti insieme la prossima settimana. Di sposarla non ne ho il coraggio. Non voglio che lo sappia". "Della tua ansia sacramentale il mio padrone non ha bisogno". La suora non riuscì a sorridere nonostante la battuta. "Stai tranquillo. Avrà la tua stanzetta e i tuoi libri. Il mio sguardo veglierà su di lei".
Il Dott. Marini lavorò fino a che le gambe lo ressero. Per dieci giorni fu lei a sedersi accanto al suo letto per fargli mangiare qualcosa. Poche le parole che si scambiavano ma lei aveva ben capito che stava andando in un posto dove la sua Pitìngola non avrebbe potuto seguirlo.
Passò dal sonno alla morte in un pomeriggio di novembre, circa un anno dopo averla conosciuta.
La morte nelle campagne è un fatto abituale e in un certo senso "normale" anche perché il sentimento della perdita raramente viene espresso.
La superiora abbracciando Ersilia le chiese "Gli volevi bene?" Lei seppe rispondere soltanto "Sì". "Anche noi", pensò la suora. 

 

Nessun commento:

Posta un commento