lunedì 29 gennaio 2018

Hernàn

Hernàn, a settantadue anni, aveva ben compreso i segnali che la tendenza inarrestabile all'entropia, gli inviava sempre più spesso.
Dapprima periodi di pochi secondi, seduto nella macchina ferma davanti a un semaforo, in cui aveva l'improvvisa sensazione di trovarsi in un luogo sconosciuto, incapace di muoversi e di andare in una qualsiasi direzione, appena infastidito dai clacson irritati. L'ultima volta una donna si era avvicinata al finestrino chiuso gridandogli se si sentisse bene e lui aveva scosso la mano sinistra per dire “tutto OK”, ma con lo sguardo spento. Quando a casa voleva cucinare qualcosa, tanto il tempo libero ormai era troppo, si metteva in linea tutti gli ingredienti e gli strumenti necessari per un bel piatto e d'un tratto incominciava a fissare il tavolo dimèntico di tutto, come se quegli oggetti non avessero per lui più alcun significato. Passato quel momento, penosissimo, doveva ricordarsi la ricetta a partire da quello che aveva di fronte e spesso, non riuscendovi, era preso da una collera furiosa che lo spingeva a buttare tutto nel secchio. Quel giorno il suo pasto sarebbero stati riso bollito e formaggio, freddi di frigorifero. Non riuscendo neanche più a dormire si sedeva sul divano a occhi aperti, ancora nervoso. Se avesse chiuso gli occhi avrebbe visto la solita sarabanda di morti e di vivi, persone reali che diventavano personaggi di una commedia sgradevole.
Erano pochi gli anni passati dalla pensione e, oltre alla sensazione di prendere dei soldi che, non lavorando, pensava non gli spettassero, sentiva profondo il cambiamento in peggio della sua vita. Certo, l'ironia che lo aveva sempre caratterizzato gli faceva nascondere bene la sua pena di fronte a gli altri, ma non di fronte a sé stesso. Nessuno in casa poteva immaginare quanta sofferenza lo accompagnava in ogni momento della giornata.
La parola che nessuno doveva mai permettersi di pronunciare, “vecchio” era il rumore assordante che gli rimbombava continuamente nelle orecchie. Hernàn non aveva paura della morte: spesso si figurava il momento dell'ultimo respiro come quello di un addormentamento: forse per questo motivo , per una paura non detta, prendere sonno ogni notte era sempre più complicato. Ma davvero non aveva paura della morte. Ciò che lo terrorizzava era quel periodo, di durata orribilmente ignota, in cui forse sarebbe diventato un morto vivente, peso e ingombro a sé stesso, non più consapevole, motivo di dolore e di nostalgia per chi lo circondava. E poi c'era lei.
Hernàn, prima che arrivasse l'incoscienza più completa, avrebbe voluto compiere quel gesto di totale autodeterminazione che gli avrebbe permesso di morire con dignità e di non sgretolarsi nel nulla dell'incoscienza. Alcuni lo avevano fatto e lui, venendolo a sapere, pensava che avessero fatto bene. Non riusciva a immaginare se sarebbe riuscito a mettere in atto quella decisione.
Il problema, anche in questo caso, era lei. Si sentiva responsabile e le voleva risparmiare una vecchiaia piena solo di solitudine e di malinconia. Aveva sofferto e aveva avuto una vita difficile, e il passare del tempo non aveva certo migliorato la situazione. Seduto a occhi aperti sul divano pensava a lei, e capiva che stava diventando un vecchio demente.
Doveva inventarsi qualcosa.

Venti anni aveva sua nipote Gabriela. Studiava, senza ammazzarsi – ma questo era un atteggiamento di tutta la famiglia, e non necessariamente negativo – alla facoltà di Matematica di Cordoba e spesso aveva un'aria sognante e svagata che al nonno ricordava il proprio deterioramento. Era per questo che le era tanto affezionato. La chiamò al telefono, utilizzando una rubrica cartacea che aveva ricominciato a usare, dopo tanti anni. Anche questo un bel segno di regressione.
“Ciao Gabrielita, quando hai dieci minuti per tuo nonno? Forse riesco anche a cucinarti qualcosa...”. “Domani, e all'ora di pranzo”. “Ti aspetto, Chiquita. Non mi deludere”. “Non è mai successo”. “Una volta, mi sembra”. “Ah, ah, vecchio pazzo”. Era l'unica nipote che aveva preso completamente il suo senso dell'ironia: la adorava per questo. “Cosa vorrà da me nonno?” pensò Gabriela “Aveva un tono di segretezza. Vedremo”.
Tornò a occuparsi dell'esame di Geometria. La matematica era bella, e ai tempi del liceo l'aveva adorata. Ma era semplice. Studiarla all'Università era stato molto più difficile del previsto. Ciò che per qualche suo fortunato compagno di studi era oggetto di naturale intuizione per lei era il frutto di uno studio totalizzante e di durata a volte neanche prevedibile.
Stare un paio d'ore col nonno sarebbe stato un delizioso diversivo.

Arrivò all'una meno un quarto. La aspettava un piattino di crocchette di pollo e prosciutto con la salsa aioli semplicemente spettacolari. “Andiamo al parco di Miraflores a sederci di fronte al Guadalquivir. Ti devo fare una proposta economica” le disse Hernàn dopo che lei ebbe finito di sbafarsi l'ultima striscia di aioli. Gabriela restò perplessa. Essendo vicini al parco e in una giornata di sole pieno non si rimise neanche il cappotto e uscirono di casa presto.
Il nonno era silenzioso, come se rincorresse, con difficoltà, certi suoi pensieri. Lei incominciò a parlargli del suo ultimo ragazzo, che al momento portava le pizze a domicilio. Quando pronunciò la parola “amore” Hernàn parve risvegliarsi dalle sue riflessioni e le chiese, guardandola nei occhi neri con i suoi occhi tremolanti: “E' un grande amore?” “Io vorrei di sì”. “Come si chiama?” “Luisito”. “Fammelo conoscere prima che io muoia”. “Allora c'è tempo, abuelito”.
Erano arrivati sulla panchina che Hernàn aveva scelto e pensato da vari giorni. Abbastanza tranquilla perché leggermente più distante da tutte le altre, comoda e non troppo soleggiata. Di fronte al fiume, tranquillo. Si sedettero a guardarlo.
“Chiquita, potrebbe arrivare un giorno in cui non sarò più in grado di venire qui, e non perché dovrò starmene a letto malato ma perché potrei non essere più capace di trovare la strada”. Gabriela capì bene il senso di quella frase: anche lei aveva notato, da mesi, piccoli segni, momenti in cui lo sguardo era perso nel vuoto, ricerche insensate di oggetti posti sotto gli occhi, risposte sconnesse a semplici domande. Nella voce del nonno sentì il timore della voragine.
“Vorrei che tu fossi la mia guida quando arriverà quel momento. Mi porterai qui, tutte le volte che potrai e siederai vicino al mio silenzio. Il regalo te lo faccio subito cosicché tu non debba aspettare una promessa nel testamento. E il regalo è un regalo, non deve suggellare nessun impegno. Solo perché ti voglio bene, Chiquita”.
Le mise in mano un assegno con quattro zeri. “Questo sarà il nostro segreto”.
Gabriela avrebbe voluto abbracciarlo con una forza che non aveva mai avuto: quel vecchio scimunito ancora una volta era riuscito a sorprenderla. Realizzò che se avesse parlato ai suoi dell'assegno quei soldi sarebbero diventati patrimonio, legittimo, della famiglia. Ma potevano anche essere un aiuto insperato per trasferirsi a Madrid.
Gabriela diventò la guida di Hernan, i cui occhi presto divennero vuoti. Uno dei primi giorni di queste gite si sedette sulla panchina, nello spazio libero a fianco di Hernàn, una signora, che a Gabriela sembrò avere un aspetto familiare. Una signora non molto alta, con un bel casco di capelli biondi, biondi per i colpi di sole. E con due occhi celesti le cui iridi avevano un orletto giallo luminosissimo. Il sorriso di una bambina. Si sedeva vicino a lui e stava in silenzio. Gabriela notò che quando lei arrivava il nonno, anche se non riusciva più a parlare, sembrava più rilassato.
Fu la signora che in un giorno di cielo coperto incominciò a parlare con Gabriela. Aveva un tono di voce piacevole e cortese e incominciarono, giorno dopo giorno a conoscersi. Hernàn sembrava che ascoltasse: qualche volta borbottava frasi incomprensibili che, stranamente, la signora sembrava comprendere. Nel giro di poche settimane questo incontro a tre divenne una piacevole abitudine a cui Gabriela non avrebbe rinunciato facilmente, e i giorni che la signora non compariva la rendevano nervosa. Non solo lei.
Come dio volle arrivò il giorno in cui Hernàn perse completamente la strada. La nipote temeva quel momento ma non era preparata.
La signora continuava a venire e Gabriela condivideva con lei il dolore profondo per quella perdita. 
Il nonno cercò con un gesto impercettibile la mano della signora e la strinse con forza. Lei sorrise e Gabrielita, finalmente, capì.



mercoledì 17 gennaio 2018

Bianca e Oscar

Bianca ed Oscar si erano conosciuti quasi cinquanta anni prima.
Lei non lo ricordava ma il primo incontro era stato sulla Terrazza Martini, a fianco delle guglie del Duomo: si presentava il libro di un safari fotografico in Botswana fatto da un avvocato alle prime armi, loro comune amico.
Durante il cocktail lui, anche se sposato da alcuni anni, aveva notato quella donna che rubava la scena all'avvocato, circondata da una piccola folla vociante, cui restituiva incantevoli sorrisi. L'occhiata che lui le lanciò, non furtiva, tornò indietro più di una volta. Verso la fine della serata, seduti sugli sgabelli del bar, cominciarono a parlarsi e scoprirono le prime delle tante cose che avevano in comune. Oscar ricordava bene di avere in mano un Irish Coffee. Era un inverno milanese freddissimo e gli era sembrato naturale offrirsi di accompagnarla a casa, cosa che lei aveva sperato dal primo momento. “A presto” le disse, lasciandola di fronte al portone. Lei gli sorrise in silenzio e rientrò in casa dove il padre la aspettava.
Oscar faticò non poco a trovare il suo numero di telefono, sapeva solo che si chiamava Bianca e dove abitava. Dopo due giorni la invitò a cena.

Furono anni intensi, segnati dall'incapacità di lui di lasciare la moglie e costellati da numerose difficoltà, ma resistettero. La loro relazione era sempre vitale, non foss'altro per l'intensità della impotenza e della disperazione che spesso si creava fra di loro. Ma il volere il bene dell'altro, pur con le limitazioni legate alla situazione, prevaleva sempre. Lui non era capace a lasciare la famiglia e lei non comprendeva che ciò non significava volerle meno bene.

Nel 2013 lui rimase vedovo. Finalmente era arrivato il momento e Bianca si vergognò di essere felice. Non aveva fatto i conti con il figlio di lui che, motu proprio, decise di farlo ospitare da una casa di riposo. Fu colta di sorpresa, sia perché lo riteneva un uomo ancora in gamba sia perché non immaginava che il figlio potesse arrivare a tanto.
Qualche sabato pomeriggio andava a trovarlo ma quell'ambiente le metteva addosso un disagio e una malinconia insopportabili. Il suo Oscar... sembrava regredito a uno stato primitivo e bestiale. Una volta provò persino, ridacchiando, a mettergli una mano in mezzo alle gambe, ma non ebbe alcun riscontro.
Facendosi aiutare da Sara e Jole una mattina di giugno e, con la scusa di una passeggiata nel parco vicino, lo rapirono.
Il figlio di Oscar, pur sapendo dove era il padre, si limitò a una doverosa denuncia ai Carabinieri, ben contento di quella nuova sistemazione che gli permetteva, alla fine del mese, di fare la cresta sulla pensione di suo padre.

Finalmente, dopo anni potevano vivere insieme. Per Bianca era gioia pura e lui, dopo mesi di istituzionalizzazione, ricominciava a prendere coscienza di sé stesso. Dormire tutte le sere abbracciati... una cosa così desiderata che non le sembrava neanche reale. Era successo, anche se non doveva considerarlo un premio per l'attesa così lunga. Era successo e basta.
Fu in quel periodo di felicità che Bianca commise uno sbaglio: desiderò di sposarlo.
Lui, quando gliene parlò, non fece obiezioni. Non vedeva bene il senso di quella mascherata ma in quel momento prevalse la considerazione che era cosa a cui lei teneva molto.

Bianca organizzò tutto come se avessero avuto venti anni: pubblicazioni, partecipazioni, anche un rinfresco in un locale dove il venerdì sera l'età massima era diciotto anni e il fumo degli spinelli annebbiava la vista. Si fece preparare dal sarto un completo adatto alla sua età ma comunque bianco. Troppo aveva aspettato.
Il giorno prima dell'avvio delle danze Oscar cambiò idea. 
Panico, timore che il suggello del matrimonio potesse portare male al loro amore. Paura di ricominciare vedendosi prossimo alla morte. E tante altre paure e riflessioni, che pur non raggiungendo il livello della coscienza, avevano condizionato questa decisione.
A Bianca toccò l'onere di disdire tutto. L'abito restò nella scatola, bianca anche essa, in cui era stato consegnato.
La delusione sfociò in una telefonata al figlio di lui: “Hai ventiquattro ore per venirtelo a riprendere. Dopodiché lo metto fuori della porta”. “Piuttosto sola che con un uomo di pezza”, pensò piangendo.
Lui non aveva più spiccicato parola e quando arrivò il figlio si fece docilmente condurre via, come un vitello alla cavezza.
Questa volta nessuno riuscì a sapere dove Oscar era andato a finire: il telefonino gli venne sequestrato dal figlio. Probabilmente fuori città; nessuno degli amici comuni riuscì a farsi dire dove era stato nascosto.
Bianca, sopraffatta dal rimorso, dopo alcuni mesi sprofondò in un'apatia priva di ogni emozione, riempita soltanto di quel periodo in cui avevano vissuto insieme. Non le interessava più nulla. Non avrebbe neanche più saputo dire quanto tempo lui era stato nella sua casa.
Lei e gli amici appresero dove era stato rinchiuso solo dopo averlo letto nel necrologio, dove lei ovviamente non figurava.



martedì 9 gennaio 2018

VITA SPIRITUALE DELLA PITÌNGOLA

Ersilia, da tutti chiamata Pitìngola, non credeva di avere anche un altro nome. Quando a scuola le dissero che quei segni sul quaderno erano il suo nome e il il suo cognome "veri", non voleva crederci. Il Maestro più di una volta aveva usato la bacchetta quando Ersilia Degliangioli non aveva risposto all'appello. Solo dopo alcuni mesi incominciò a convincersi che Pitìngola fosse un nome affettuoso usato dai genitori, dai fratelli e dagli altri bambini con cui giocava nell'aia della vecchia casa dei nonni, mentre Ersilia Degliangioli, che incominciava a scrivere con difficoltà, era il nome usato in quella scuola, che sentiva estranea anche se imparava cose che la interessavano molto.
Era per questo che la mattina alle sei e mezzo saltava sul biroccio guidato dal vecchio Toni, assonnata ma desiderosa di imparare. Quando conseguì il diploma di licenza elementare l'insegnante consigliò alla madre di iscriverla alla scuola media: in famiglia però c'era la necessità che ciascuno desse il proprio contributo e dieci anni bastavano per andare a prendere l'acqua alla fonte tre volte al giorno - ai rintocchi delle sei, di mezzodì e all'Ave Maria -, per imparare a cucinare senza buttare via niente, neanche le bucce delle patate, e per tenere pulito il pollaio. Le galline quando alle sei la vedevano entrare la salutavano "Pitìngola, Pitìngola", almeno così a lei sembrava. Non era infelice ma si sentiva mancare un po' il respiro.
Libri in casa non ce n'erano e solo raramente capitava qualcuno che avesse con sé un giornale. A lui Ersilia chiedeva timorosa di poterlo leggere, dimostrando un tale interesse che gli ospiti ben volentieri glielo regalavano. Lei, al settimo cielo, se lo faceva firmare e datare, per non dimenticare il chi e il quando di un così bel regalo. La sera, assolti i suoi doveri, chiedeva di leggere quel giornale alla luce della candela posta sul tavolo della cena, pur sapendo che rubare un'ora al sonno le avrebbe reso il giorno successivo ancora più faticoso.
Un giornale del 1890 era per gran parte almanacco, e la lettura scatenava viaggi fantastici in posti che non avrebbe mai visto. Aveva anche letto il resoconto di una seduta del Senato del Regno, capendone ben poco, ma non tralasciava nulla. Le pubblicazioni a puntate dei romanzi di Salgari (lei ne lesse solo due) la portarono in un universo incantato e sereno.

Giunse l'età in cui una ragazza deve andare via da una casa per andare a vivere in un'altra, pur facendo le stesse cose, con in più l'incombenza di soddisfare alcune esigenze a lei ignote di un uomo altrettanto ignoto. Anche alla Pitìngola tutto ciò non venne risparmiato e andò nella grande casa sul colle, salutando la sua famiglia con la morte nel cuore.
Al sesto mese di gravidanza svenne per un'emorragia. La nuova famiglia ritenne che poteva valere la spesa di chiamare il dottore, piuttosto che di perdere due robuste braccia, quattro ragionando con un po' di lungimiranza. Chiamarono il Dott. Marini, del Sant'Ambrogio di Mortara, di cui si diceva gran bene, ma soprattutto che facesse le più basse tariffe.
Bartolomeo Marini sarebbe stato un medico atipico anche nel terzo millennio: alla fine del XIX secolo era considerato soltanto un'onta per la professione. Laureatosi a Bologna con Augusto Murri, con lode e pubblicazione della tesi, aveva preferito lasciare da subito una solida e ricca professione per andare a lavorare in un piccolo ospedale al confine fra Lombardia e Piemonte. Le quotazioni economiche erano crollate ma lui aveva trovato un'atea soddisfazione nel mitigare gli insulti della natura e quelli del lavoro nei campi a persone di gran lunga più sfortunate di lui. Braccia restituite alla terra che talvolta gli scrivevano con grafia affaticata biglietti di ringraziamento, i suoi trofei, che andava a rileggersi nei momenti bui. Compilava anche delle parcelle, di nascosto dai cinque colleghi dell'ospedale che, leggendole, l'avrebbero denunciato all'ordine per concorrenza sleale. Ma anche così quattro su cinque restavano inevase.
Viveva come un frate in due stanze mese a disposizione dall'ospedale, una con un lavabo e un letto prelevato da una corsia, l'altra con la scrivania e una piccola libreria a muro. La finestra dava su un cavedio semibuio con tante finestre uguali. Gli angoli del pavimento arrotondati rivelavano la antica natura di ambulatorio dei locali. Il bagno, comune, era nel corridoio. Bartolomeo mangiava poco, uova più che altro, verdura e frutta. Un po' di pane di campagna. La sera la stessa minestra dei pazienti. In compenso leggeva molto. Non era né triste né disilluso. Riuscire a fare una buona diagnosi, riuscire a curare un uomo, se non a guarirlo, erano le soddisfazioni più grandi.

Arrivò alla casa sul colle dopo aver finito il giro in corsia, dove aveva chiuso gli occhi a due tisici. Trovò Pitìngola cosciente, bianca come i fogli della carta su cui scriveva le sue ricette. Lo stetoscopio gli rivelò che il battito cardiaco fetale c'era, se pur debole. La ragazza lo supplicava con gli occhi. Marini pensò che in ospedale forse sarebbero riusciti a portare avanti la gravidanza fino al settimo mese. La signora avrebbe potuto stare a riposo a letto e abbastanza al caldo, le uniche cose di cui aveva bisogno. Il suocero, capo della famiglia, chiese subito quanto sarebbe costata questa soluzione e il dottore glielo disse, precisando che per il vitto avrebbero dovuto provvedere loro. Sul momento il vecchio accettò.
Quel mattino di novembre fu organizzato il trasporto, con una carrozza che Marini pagò di nascosto: continuava ad avere davanti agli occhi l'espressione atterrita di quella madre troppo giovane.
Arrivati in ospedale cercò di accomodarla il meglio possibile nella corsia donne, nel letto più riparato dalle correnti d'aria; le portò una coperta in più e chiese alla suora di portarle qualcosa di caldo. Per l'anemia avrebbe prescritto qualcosa nel pomeriggio.
Pitìngola era frastornata. Dispiaciuta sia per aver causato tanto trambusto sia perché stare a letto tutto il giorno le sembrava una pigrizia inaccettabile. Però stava bene in quel letto con le coperte rimboccate, anche perché sapeva di farlo per il suo bambino. Non si alzava neanche per andare in bagno, perché così le era stato detto. Quel dottore che era venuto a prenderla aveva dimostrato una premura e una cortesia che mai nessuno aveva avuto con lei. Non le aveva chiesto niente e le aveva offerto la possibilità di far nascere suo figlio. Gli era tanto grata per questo ma la sua licenza elementare non bastava a esprimere la riconoscenza come avrebbe voluto. Ma forse per lui era solo lavoro...
Successivamente Bartolomeo ed Ersilia raggiunsero un primo livello di confidenza, sufficiente a permetterle di chiedergli se poteva avere un giornale. Marini non rispose ma da quel giorno, dopo la visita in corsia, le portava qualche pagina del Corriere locale, con racconti o notizie che lui supponeva potessero interessarle. Pitìngola leggeva tutto e dopo qualche giorno gli chiese anche delle spiegazioni. Lui capì di avere a che fare con una persona intelligente e desiderosa di "seguire virtute e conoscenza" e allora nel pomeriggio si sedeva a fianco del letto di lei e parlavano.

Con la seconda emorragia Ersilia perse il bambino. Si sentiva colpevole. Il marito, saputa chissà come la notizia, smise di portarle ogni giorno quel po' di pane e di formaggio (la domenica anche due mele) e non si fece più vedere, così come le rimesse in denaro per la degenza. Bartolomeo, che aveva cominciato a condividere oltre ai giornali strappati anche un po' di sé stesso, proseguì nell'opera condividendo anche il suo pasto. Pezzi di pane con un po' di carne. Il pollo, quando c'era, che a lei piaceva tanto.

Giunse il giorno in cui Pitìngola non fu più anemica e abbastanza in forze da dover essere dimessa. Era giusto un mese che dalla casa sul colle non giungevano più persone né notizie. Incredibilmente lei non sarebbe stata in grado di tornarvi da sola, essendovi entrata al momento del matrimonio e non essendone più uscita. Marini capì che ne era stata estrusa, elemento non più utile all'economia del clan.
Si rivolse alla Madre Superiora, chiedendole consiglio e aiuto. La donna lo conosceva come uomo perbene e si era accorta della cura particolare che lui aveva mostrato per quella ragazza. "Potremmo farle fare l'inserviente qui in ospedale, almeno per qualche tempo", gli disse, "Il vitto e l'alloggio li avrà e non farà certo una vita più faticosa di quella che ha fatto finora.". "Grazie, suora, dio te ne renderà merito". "Lo so". Con un colpo solo la suora aveva risolto due problemi.

Ersilia, Pitìngola anche per tutto l'ospedale, assisteva il medico e la suora infermiera nel giro del mattino e nella controvisita del pomeriggio. Imparò presto perché era pulita e volenterosa. Quando era vicina a lui intuiva le sue richieste guardandolo negli occhi: prima ancora che lui parlasse lei gli porgeva già le garze o il bisturi.
La loro confidenza non sarebbe mai diventata intimità ma il giornale lo leggevano insieme la sera nel refettorio, dopo la minestra, ed entrambi credevano di essere felici.

Quando Bartolomeo trovò le feci del colore della pece comprese il senso definitivo dei disturbi che da un po' di tempo lo affliggevano, compreso quel bruciore di stomaco sordo e continuo che il bismuto non riusciva a sedare. Sapeva che anche i medici devono morire e cercò di farlo con lo stesso stile con cui era vissuto. Ancora una volta la Superiora gli fu di grande aiuto.
"Il mio morire tranquillo corrisponde al sapere che qualcuno si prenderà cura di lei. Se credi mi faccio battezzare, confessare, comunicare, cresimare e dare l'estrema unzione tutti insieme la prossima settimana. Di sposarla non ne ho il coraggio. Non voglio che lo sappia". "Della tua ansia sacramentale il mio padrone non ha bisogno". La suora non riuscì a sorridere nonostante la battuta. "Stai tranquillo. Avrà la tua stanzetta e i tuoi libri. Il mio sguardo veglierà su di lei".
Il Dott. Marini lavorò fino a che le gambe lo ressero. Per dieci giorni fu lei a sedersi accanto al suo letto per fargli mangiare qualcosa. Poche le parole che si scambiavano ma lei aveva ben capito che stava andando in un posto dove la sua Pitìngola non avrebbe potuto seguirlo.
Passò dal sonno alla morte in un pomeriggio di novembre, circa un anno dopo averla conosciuta.
La morte nelle campagne è un fatto abituale e in un certo senso "normale" anche perché il sentimento della perdita raramente viene espresso.
La superiora abbracciando Ersilia le chiese "Gli volevi bene?" Lei seppe rispondere soltanto "Sì". "Anche noi", pensò la suora.