lunedì 12 novembre 2018

Padri e figli (2)

Ho appena finito di scopare. Veramente è stato un solo un tentativo. Con la sensazione di sconforto che mi pesa sulle spalle come una coperta militare, mi alzo. «Vado a prendere le Marlboro».
Non sopporto di vederle quel sedere e quelle gambe lardose, splendidi solo per Rubens.
Non dorme, fa finta, così non dobbiamo dirci nulla.
Mi siedo in cucina appoggiando i gomiti sul tavolo di fòrmica e, intanto che mi accendo la sigaretta, mi cade l'occhio sui margini sbeccati, come se l'avesse rosicchiato un castoro. Tossisco più volte, e mi gira la testa. Non sono felice né infelice, solo vuoto come un sacchetto nero della spazzatura. Quelli grossi, in cui puoi anche infilare un cadavere. Anche il fumo aumenta questa sensazione di assenza dei sentimenti. Chissà se questa donna mi fruga nei cassetti del comodino: un giorno o l'altro qualcuna di loro troverà la pistola e ci faremo delle risate.
Lo so che è pericoloso ma le raccatto lo stesso per la strada e me le porto a casa. Loro vogliono soltanto denaro, io conferme. Cedono un'ora di sé stesse: quello che io dico e faccio non gli interessa. In genere non sono neanche belle, né affascinanti. Nemmeno un po' carine.
Chissà se quella di stasera mi ha dato il voto: è abbastanza educata da non sentire la necessità di farmene parte. Io me lo do tutte le volte. Oggi cinque meno ma nei mesi scorsi ho raggiunto anche la sufficienza.
Il mio desiderio erotico è inversamente proporzionale alla capacità di praticarlo. E non è un esaurimento fisico, piuttosto la consapevolezza che non c'è più niente di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità». La Bibbia ha sempre ragione.
Tristissimo. Anche il dover cercare la novità in una donna sempre nuova ma continuamente uguale a sé stessa. Una ricerca imposta dal desiderio ma stroncata sul nascere dalla malinconia, dalla certezza di non essere più capace a trovare “quella” novità.
Chissà che voto mi avrebbe dato mio padre. Una bella testa d'asino a margine del foglio del quaderno – un messaggio per il maestro - è il ricordo più frequente. Stasera la potrebbe disegnare sul lenzuolo.
Non riesco a convincermi che non si può ragionevolmente dire a un bambino “Quali sono i tuoi bisogni emotivi?”. Lui era soltanto consapevole del dovere di insegnare ciò che ciò che a lui avevano insegnato come giusto, e ciò che non lo era.
Non riesco a ricordare in lui, dopo quarant'anni che se n'è andato, un momento in cui mi abbia dato quello che continuo a cercare. Soltanto critiche, rimproveri, “voti”.
Anche io ho avuto un figlio, e la promessa che mi sono fatto è stata quella di essere per mio figlio un padre migliore di quello che lui è stato per me. Che poi non era difficile, nelle intenzioni, sarebbe bastato fare le cose al contrario di come aveva fatto lui.
Adesso mio figlio ha l'età in cui potrebbe avere un figlio a sua volta, e la domanda si rinnova: ma io son stato più buon padre verso di lui di quanto lui, quello che porta il suo stesso nome, lo è stato verso di me?
E' una bella domanda, inutile come la masturbazione che sottende, perché priva di risposta. Ciascuno dei tre partecipanti alla gara, lui, io e il nipote, potrebbe dare risposte completamente diverse.
Lui non risponde più e l'epoca in cui ha vissuto è lontana anni luce, anche se i ricordi più lontani sono quelli più impressi. Il nipote sembra sereno, o forse è solo ciò che mi auguro.
Io resto in mezzo, a baloccarmi con queste stronzate.
Vado a svegliarla. La mia oretta di svago non è finita, magari, con un po' di impegno in più...


lunedì 8 ottobre 2018

Mario

Le domeniche pomeriggio le passava in casa; trovava sempre qualcosa da fare che gli impedisse di pensare: la radio, il totocalcio. Un nuovo giallo, per distrarsi. Mai la televisione. Anche quando veniva invitato a un cinema, a vedere un film non scelto da lui, aveva la stessa sensazione di inappropriatezza, e aspettava che dovesse succedere qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita.
Passava così le domeniche, fumando alla finestra della sua camera, una Camel dietro l'altra, fino a che la tosse non lo sfiniva.
Quella domenica si impose di uscire, senza sapere dove andare. Prese l'autobus numero 1, quello che faceva il percorso più lungo, più di un'ora per arrivare al capolinea. Non aveva niente da fare, e con settanta lire poteva passarsi due o quattro ore. La domenica pomeriggio, dal centro alla periferia, non c'è ressa e puoi sederti.

Lei salì due fermate dopo. A lui, che faceva la seconda classe del liceo scientifico, parve una bambina, ma aveva tredici anni. La prima cosa che notò fu l'acne, un punto d'incontro importante. Chissà dove andava. Un fato cieco gliela fece sedere di fronte. Come sarebbe stato possibile fare finta di non guardarla, ma soprattutto come farsi guardare da lei? Certo non per l'abbigliamento: lui vestiva quello che gli davano e aveva imparato a non farci caso. Ma in quel momento avrebbe voluto portare le scarpe con i fiocchetti, quelle che aveva visto a scuola addosso al suo compagno Grimaldi, che ne faceva sfoggio.
Cosa la poteva interessare in un ragazzo più che ordinario?
Di nuovo il fato gli diede una bella spinta. Mentre la bimba frugava nella borsa le cadde dalle mani un rossetto, complice una brusca frenata del mezzo. Entrambi si chinarono e i loro volti si sfiorarono per un attimo. Mario fu più lesto e prese il rossetto. Lei vide il rossore sul volto di lui nel porgerglielo e non poté fare a meno di ridere. Anche lui rise.
«Grazie!» mormorò.
«Figurati».
Lui il rossore non lo poteva vedere ma il viso bruciava.
«Sono più rosso io o il rossetto?»
«Tu, senza dubbio.»
Dopo tre secondi le chiese: «Cosa fai?»
Come sei bella.”
«Torno a casa, sono stata tutto il giorno in ospedale con mio padre.»
«Sarai stanca.»
Cosa ha questo ragazzo? Mi sembra diverso.”
«No, solo annoiata. Aspetto che lo dimettano. La domenica tocca a me andare da lui.»
E adesso che le dico?”
«Io fra due anni mi iscriverò a Medicina.»
Sono bugiardo ma ne vale la pena.”
«Tu cosa vuoi fare?»
«Non lo so ancora.»
Il passeggero a fianco di Mario, lui non capì neanche se era un uomo o una donna, si alzò e scomparve. Anche lei si alzò, e andò a sedere vicino a lui. Non dovevano più guardarsi negli occhi ma si toccavano, anzi, lei dopo poco si appoggiò a lui con naturalezza.
«Dove scendi?»
«Al capolinea»
Non meno di mezz'ora...”
I pomeriggi invernali perdono presto ogni chiarore.
Come se si fossero conosciuti da sempre lei appoggiò la testa sulla sua spalla e, per qualche minuto, dormì. Mario se ne accorse perché il respiro di lei divenne regolare.
Non ho mai dormito sulla spalla di un ragazzo sconosciuto.”
Gli occhi di lui caddero sul maglione di angora beige, dove spuntava un piccolo seno, ancora acerbo ma in quel momento più che appetibile. Immaginando i capezzoli sentì un bel calduccio in mezzo alle gambe.
«Mi accompagneresti a casa? E' già buio e devo fare un tratto a piedi».
«Certo!»
Son venuto per questo...”
Quando scesero dall'autobus lui, per aiutarla, le porse la mano e lei non gliela lasciò più.
Il gonfiore in mezzo alle gambe cresceva e Mario annuiva senza ascoltare quello che lei gli raccontava, e il desiderio di conoscere il gusto che avrebbe avuto la bocca di lei lo metteva in condizione di non capire più niente.
Si fermò quando vide un muretto, con vista sul porto illuminato. “Stai un minuto zitta”. Provò a baciarla: non l'aveva mai fatto. Per essere la prima volta gli riuscì benino.
Che bravo, chissà quante prima di me.”
Che motivo c'era di smettere? Il piacere aveva stoppato il tempo. Entrambi non volevano pensare.
Mario si sentì tirare giù la cerniera del pantalone ma non smise di baciarla, respirò solo un po' più affannosamente. Quella mano fresca, estranea, non ebbe bisogno di muoversi più di tanto: dopo pochi attimi fu inondata di sperma caldo. La testa di lui cadde sul collo di lei e le diede un piccolo morso. Rideva Mario, nessuno poteva sapere che era la prima volta.
«Quante ragazze hai avuto?», gli disse lei asciugandosi la mano.
«Qualcuna...»
«Anche io.»
Cosa ne poteva sapere lui...
«Dimmi almeno come ti chiami...»
«No. Ti cercherò io.»
Sara entrò nel portone.



venerdì 14 settembre 2018

Tom e Scarlett

Tom restò per un attimo a bocca aperta. Non ci credeva, non poteva essere possibile. Non capiva come fosse possibile. Non era mai successo e avevano fondato tutta la loro vita sul fatto di essere soltanto in due. Niente pannolini.
«Ma è meraviglioso!» balbettò.
«Sai che io sono precisa come un orologio svizzero.»
«Sono felice» le disse, dandole improvvisamente le spalle.
Questo cambiamento, inatteso, lo irritava.
Fino a quel giorno avevano girato in lungo e in largo il Midwest, con quella macchina un po' scassata, la “loro” macchina. Tom era un rappresentante di amido per il bucato e, se voleva guadagnare qualche dollaro doveva girare senza posa. Tanti kilometri tanti dollari. Scarlett si era adattata a quella vita vagabonda, l'aveva fatto con amore. Stare in macchina tutto il giorno aveva il suo fascino, fatto di libertà e di lunghe strade vuote.
Scarlett era il soprannome che le aveva dato lui la prima volta che l'aveva vista uscire da scuola, con un rossetto di un colore così acceso che l'aveva fatto fremere di desiderio. Avevano tutti e due tredici anni.
L'ostetrico a cui si rivolsero aveva l'aspetto e i modi di un veterinario ma fu il primo che trovarono. La visitò con così poco garbo che la fece gridare: Tom gli avrebbe tirato due ceffoni. «Cara Signora, per la conformazione del suo utero le consiglio vivamente un riposo assoluto. Per lei il rischio di abortire è alto.» Uscirono dallo studio piangendo: questa notizia mandava a monte tutta la loro vita. E anche i venti dollari che avevano dovuto sborsare non li avevano messi di buon umore.
Si trattava di trovare un albergo, perché non avevano una casa: la macchina era la loro casa. Lui avrebbe continuato a girare in macchina, ancora di più, per poterle pagare la stanza.
Scarlett continuava a piangere in silenzio. Aveva una voglia terribile di una Camel senza filtro ma il medico era stato categorico: «Le sigarette le dimentichi.» Si era dimenticato, forse, di dirle che anche l'alcool fa male al feto.
L'albergo lo trovarono nel Nebraska, a Battle Creek. Il Norfolk Country Inn non era una topaia ma aveva comunque un sentore di tristezza. Poco meglio di un motel. Appena entrato Tom notò sul copriletto una bruciatura di sigaretta. L'odore delle camere era quello dell'insetticida. Una televisione su di un tavolino ai piedi del letto matrimoniale, troppo piccolo. Un bagno angusto, con mattonelle bianche opache. La prima notte dormirono insieme, dopo aver comperato una cassetta di birra ed essersela finita, una bottiglia dopo l'altra, guardando il David Letterman Show. Non ebbero rapporti sessuali, cosa per loro abbastanza inconsueta.
La mattina dopo Scarlett fu svegliata dalla luce che filtrava dagli avvolgibili. Lui era già uscito, evitando a entrambi un saluto spiacevole. Sapeva che per qualche giorno non l'avrebbe rivisto e pianse, ancora coricata. Si alzò per andare a cercare una birra.
Nello specchio del bagno, nuda prima di entrare nella doccia, si guardò di sfuggita. La rotondità della gravidanza non si vedeva ancora.
Uscì dalla camera con indosso solo l'accappatoio, e un asciugamano verde avvolto sulla testa a mo' di turbante. Gli occhi, di quello stesso colore, brillavano sul viso candido. Albrecth, l'albergatore, ne fu impressionato.
Aveva ereditato l'albergo dal padre, che negli anni dieci era emigrato in America dalla Germania, con l'illusione di trovarvi una vita più agiata. Dopo trenta anni passati in quell'albergo, e facendovi tutte le mansioni possibili, il proprietario, non avendo nessun erede, glielo aveva venduto per una cifra simbolica: era contento che il suo albergo non finisse in mani estranee. Il padre di Albrecht aveva continuato a fare la stessa vita, ma da padrone. Ma per poco: dopo pochi mesi era morto, lasciando tutto a quello scioperato del figlio.
«All'una le serviremo il lunch in sala da pranzo» le rispose. «Gradisce qualcosa di particolare?»
«Una bistecca con patate. E la birra.»
La bistecca gliela aveva consigliata l'ostetrico.
Quel giorno era l'unica cliente e Albrecht aveva notato che l'uomo che era arrivato con lei se ne era scappato prima delle sette. Appetibile, anche se il voluminoso accappatoio di spugna ne confondeva le linee del corpo. Chissà se aveva i capelli rossi. Le sarebbe saltato addosso subito ma decise che ci avrebbe provato dopo il lunch. Poteva anche essere una conquista molto agevole.
«Prego, si accomodi» le disse quando arrivò in sala, e le spostò la sedia per aiutarla a sedere. Un paio d'anni di scuola alberghiera li aveva fatti, prima di farsi cacciare, e aveva imparato che fare il cameriere è prima di tutto essere accogliente con i clienti. Con le clienti.
Finita la bistecca, mentre lei si alzava per andare al banco del bar a prendere un'altra birra, lui le sfiorò un seno con l'avambraccio peloso, con un gesto insieme malizioso e noncurante. Scarlett ne fu turbata: non le era mai successo che un altro uomo le dimostrasse interesse: era sempre con Tom. Decise che al prossimo gesto analogo uno schiaffone sarebbe stat risposta adeguata. Figuriamoci se poteva permettere a quel giovanotto alto e biondissimo – non sembrava neanche un americano - di prendersi certe libertà. E poi, non in quello stato.
Ci volle un mese, per accoglierlo nel letto, una sera che aveva bevuto troppa birra.
Tom in quel mese si era fatto vedere solo due volte. Tutte e due le volte il sesso fra loro era cambiato. Lei pensava che lui, consapevole del suo stato, fosse diventato più delicato. Lui aveva perso ogni interesse: il silenzio fra loro lo testimoniava. Tom aveva bisogno di scopare quasi ogni giorno: era per lui una valvola di scarico. Aveva infatti frequentato un sacco di prostitute e aveva fatto anche dei paragoni. Alcune a letto erano certamente meglio di Scarlett. Era arrabbiato, perché quel figlio li aveva distaccati nella loro intimità. Ma non era stato capace di parlarle. Anzi, credeva che i cambiamenti che aveva notato nel comportamento di lei fossero dovuti alla consapevolezza di portarsi dentro un figlio loro.

I giorni e i mesi si trascinavano.
Albrecht e Scarlett erano diventati una coppia e vivevano nell'appartamento del padrone. Raramente Tom tornava, sempre più assente e svogliato.
La pancia cresceva e Albrecht credeva che quel figlio fosse il suo. Gli sembrava che fosse l'unica cosa buona che aveva combinato nella vita. Gli ultimi tempi le faceva tutto – come suo padre – il cuoco, il cameriere, l'uomo delle pulizie. La toccava raramente per paura di nuocere al bambino, limitandosi a masturbarsi accanto a lei, accarezzandola in mezzo alle gambe. Lei era assente.
Pensava continuamente di aver sporcato il figlio con lo sperma di uno sconosciuto, mescolandolo più volte con quello del vero padre. Questo figlio avrebbe dovuto avere anche qualche cosa di Albrecht.
«Scarlett, dobbiamo andarcene,» le disse una sera, prima di coricarsi accanto a lei. «Non voglio più fare questa vita. Ho venduto l'albergo e ho i soldi in banca. Domani alle otto partiamo.»
«Me lo aspettavo.»
Si ritornava in macchina.
Si domandò se lo amava, almeno quanto aveva amato Tom, e come sarebbe stato averlo accanto tutta la vita. Finendo la lattina di birra pensò che anche il bambino avrebbe potuto essere un piacevole diversivo.
«Dammi un'altra birra.»
Il giorno che Ton sarebbe arrivato, chissà quando, non l'avrebbe più trovata. Tutto qui.
La macchina di Albrecht non era né nuova né comoda: ogni asperità della strada la sentiva sulla schiena con una fitta dolorosa.

Tom stava tornando a Battle Creek. Aveva deciso di parlarle, ma non sapeva ancora cosa le avrebbe detto. Forse di tutte le prostitute che aveva conosciuto. Forse che voleva provare a ricominciare, in tre. Forse che aveva deciso di lasciarla per sempre e continuare la vita randagia del commesso viaggiatore. Solitario puttaniere.
Aveva bisogno di parlarle: sapeva che le parole giuste sarebbero spuntate da sole sulle sue labbra.
Arrivò che loro erano appena andati via: il portiere dell'albergo gli disse di essere il nuovo proprietario. Per un attimo Tom ebbe la sensazione di essere caduto in un universo parallelo.

Dopo un giorno di viaggio a Scarlett le si ruppero le acque. Era già buio.
«Mi sono pisciata addosso»
«Ma come?»
«Come credi che sia successo, idiota! Trovami un ospedale che ho un mal di pancia terribile.»
Albrecht considerò che l'ospedale più vicino era il Good Samaritan di Kearney. Una ventina di miglia, mezzora.
«Sbrigati! Corri!!»
Lui accelerò. Non voleva che partorisse in macchina.
Avrebbe dovuto cambiare la lampadina del faro destro della macchina ma non aveva mai tempo. Accelerò ancora, lei mugolava dal dolore.
Non prese bene una curva a sinistra, perché la vide all'ultimo momento. La macchina finì nella scarpata. Si fermò, accartocciata, dopo aver rotolato per un centinaio di metri. Non avendo la cintura di sicurezza lui morì sul colpo. Lei si fratturò il cranio ma non morì subito: rimase in coma per qualche ora.
Quando trovarono la macchina, il mattino dopo, erano entrambi morti. Lei aveva fra le gambe un neonato che aveva ancora un soffio di vita.
Tom lo venne a sapere ma non andò mai a reclamarlo.
Il bambino, istupidito da tutte le birre che la madre aveva bevuto, visse inconsapevole di sé e dei suoi genitori, in un ricovero per cerebrolesi.
In macchina Scarlett aveva deciso di chiamarlo Albrecht.

venerdì 3 agosto 2018

Lo zio

Pubblico l'ultimo estratto tratto dal mio romanzo, in dirittura d'arrivo.
A settembre incomincerò a vagare per editori... piccoli e grandi. Buona fortuna a me...


Corinnah, avendo la mattinata libera dal giornale, andò a trovare lo zio. Non lo vedeva da parecchio: era talmente strano che a volte la metteva a disagio. William Croft, fratello di suo padre aveva settantanove anni e viveva da solo in New Jersey. Non avrebbe potuto essere più diverso da Edward: ordinario alla prima impressione ma capace di follie incomprensibili. Simpatico, sempre pronto alla battuta, anche salace. Non aveva mai avuto un gran rapporto con suo fratello ma la sua morte l'aveva colpito profondamente.
In passato era stato il proprietario di un piccolo supermercato, più volte visitato dalla criminalità, e l’ultima rapina era stata l'occasione per chiudere tutto e ritirarsi. A quel tempo aveva già superato i sessanta. Qualche soldo da parte era riuscito a metterlo, e non aveva grandi bisogni. Aveva vissuto sempre da solo, metodico nelle abitudini, con gli anni era diventato ossessivo. Non era giunto al punto di contare i passi ma Corinnah sapeva che se fosse arrivata fra le otto e le dieci del mattino non lo avrebbe trovato in casa: lo zio era fuori a passeggiare, per quanto glielo permettesse l'artrosi alle ginocchia. Suonò alle dieci e tre minuti.
«Ecco la grande giornalista...»
«Buongiorno vecchio pazzo»
«Entra, tanto sei già qui. Ma un giorno o l'altro ti rimanderò in quella tua schifosa New York» 
«Come al solito non ti ho portato niente: non esiste qualcosa che possa farti piacere»
«Sta zitta sciocca donna, le donne non devono parlare.»
L’abbracciò forte, anche se Corinnah notò che la stringeva meno del solito. Come sempre lo zio era molto curato nella aspetto e aveva la barba appena fatta; la camicia bianca di bucato e sopra un maglione girocollo bordeaux di lambswool a coste. Il profumo, che Corinnah adorava, era sempre lo stesso: English Lavender, di Atkinsons. Curava il proprio aspetto lo zio, ma solo per sé. Corinnah aveva rinunciato da parecchio tempo a capire se lo zio avesse mai avuto una donna. O un uomo. Un amore comunque.
Continuando a punzecchiarla la fece entrare, precedendola. Camminava con difficoltà e senza il bastone non ci sarebbe riuscito. Ma quando Corinnah gli porse il braccio rifiutò.
«Invece delle tue sporche birre ti preparerò un karkadé, infuso del fiore dell'ibisco, che tu non conosci ancora. So che ti piacerà.» Lo zio non ricordava, da un anno all’altro, che a Corinnah offriva sempre il karkadé, spacciandoglielo come l’ultima novità proveniente dal vecchio mondo. A Corinnah quel gusto non dispiaceva ma lo doveva bere a occhi chiusi per non vederne il colore. Vecchio vampiro. “Eppure nella tua vita di birre ne avrai vendute tante...”
Erano seduti davanti alla finestra e Corinnah aveva il prato di fronte. Il sole veniva riflesso da ogni filo d’erba ancora bagnato dalla rugiada e il prato luccicava allegramente. Lo zio, al di là delle battute, era dimagrito e pallido.
«Cosa mi racconti di bello?» gli chiese Corinnah.
«Veramente poco. Ho le vertebre marce e mi hanno dovuto mettere un busto. Il dolore è insopportabile. Ho la prescrizione per gli oppiacei ma preferisco farmi le canne. C’è un angolo del prato dove coltivo quella buona, ah ah ah»
«Mi spiace zio.» Sorbì un sorso di sangue caldo a occhi chiusi. Chissà se lo zio sapeva che l’erba buona non si può coltivare. Chissà se qualcuno, in quel quartiere, l'avrebbe denunciato.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Sì, numerose.» Corinnah fu sorpresa: lo zio non aveva mai chiesto niente e lei sapeva che aveva un gran vanto nel farsi tutto da sé.
«Il tempo che mi è stato assegnato sta finendo. Vedo che hai sentito il mio richiamo, portato dalle nuvole.» Non ricordava neanche più che Corinnah lo andava a trovare più o meno una volta all’anno.
«Ti ho preparato una lista di compiti da fare e ti ho dato la firma sul conto in banca. Devo sistemare le mie cose e l’unica che può aiutarmi a farlo sei tu. A te non lascio niente: non hai bisogno di nulla. In questo quaderno c’è la lista delle cose da fare. Poi c’è una persona: sappi che lei è stata la persona più importante della mia vita. Non ti posso chiederle di volerle bene come l'ho amata io ma vorrei chiederti di starle vicino in ogni sua necessità quando io non potrò più farlo. La dovrai cercare non appena resterà sola.» Corinnah posò la tazza, sorpresa. Non sapeva bene cosa dire: sapeva che lo zio era imprevedibile, ma non immaginava fino a questo punto.
«Stai davvero così male? Non hai una cera così brutta», disse sorridendo, cercando di sdrammatizzare.
«So riconoscere l'approssimarsi del capolinea. C’è un momento in cui capisci che proseguire, oltre che inutile, è poco dignitoso. Però è giusto lasciare le proprie cose in ordine: la scrivania della vita è sempre stata un marasma. Adesso è il momento di mettere ogni cosa a suo posto. Si accese tranquillamente la sigaretta.
«Non ti sei mai sposato...»
«Non essere curiosa. Non voglio spiegarti i fatti e le decisioni della mia vita, ti chiedo soltanto di darmi una mano»
«Stai tranquillo. Dimmi solo cosa devo fare»
«Nel quaderno hai scritto tutto. Il giorno dopo la mia cremazione la cercherai.»
Corinnah era triste e nello stesso tempo incuriosita da morire. L’amore segreto... Non l’avrebbe mai detto, anche se lo zio un certo non so che di misterioso ce l’aveva sempre avuto. Chissà che storia c’era dietro... una persona sposata? Single come lo zio? Ma allora perché non vivevano assieme? Chissà com’era stata l'intimità fra di loro: non riusciva a immaginarseli.
Lo zio si alzò dicendole «Se non ci dovessimo più vedere, ma non è certo, sappi che mi hai fatto il regalo più grosso. La mia cenere te ne sarà riconoscente.» Era serio, anche se queste ultime parole le disse in modo un po’ teatrale.
Corinnah pensò “Faccio solo il mio dovere” e gli rispose «stai pur certo che aiutarti in questo momento è per me un piacere.»
Intanto che accendeva la macchina lo vide ritto sulla soglia di casa, col braccio alzato. Lo salutò anche lei, con due colpi di clacson.
Anche questa è fatta,” pensò lo zio. “Corinnah è una brava ragazza, sono tranquillo. Adesso mi resta solo da pensare a me stesso.” Tirò fuori dal frigorifero quell'avanzo di frittata di pasta che si era fatto il giorno prima, ricetta importata in America dopo i suoi primi soggiorni in Calabria, dove andava per le battute di pesca al tonno. Si apparecchiò la tavola come ogni giorno e incominciò a mangiarla, assaporando ogni boccone. Chissà che non fosse davvero l’ultima. Prepararla era sempre stato un grande piacere. Berci sopra un buon vino Savuto di Calabria sarebbe stata la morte sua. “Sua di chi??” si domandò, ridendo per l'involontario doppio senso.
Alle quattro sarebbe andato al casinò. Avevo organizzato tutto come pensava di dover fare e adesso poteva dedicarsi solo a sé stesso. Prese la busta e mise i soldi nel portafogli. Chiamò un taxi. «Atlantic City. Golden Nuggett.»
Sapeva bene quello che voleva fare: puntare quei soldi sul ventisei della roulette, uno dei due numeri a fianco dello zero, il numero che quando esce fa vincere il banco. Non sapeva invece perché voleva buttare via, così stupidamente, una somma così alta. Buttare via quei soldi era una sua esclusiva pertinenza, era l'estrema affermazione che solo lui era il padrone della sua vita e solo lui poteva decidere cosa farne. E proprio fare qualcosa di inutile, priva di ogni finalità, gli dava ancora la sensazione di essere vivo e vitale: sapeva bene che la realtà era diversa. Rischiare tutti quei soldi includeva anche la possibilità di una vincita incredibile, tre milioni e seicentomila dollari, cosa che avrebbe scombussolato tutti i suoi piani. Gli avrebbe dato anche la dimostrazione che esisteva la possibilità di guarire...
Rischiare... Ricordava bene lo zio quel periodo della sua vita di adolescente in cui aveva fatto quel gioco assurdo... Stupido solo come si può esserlo a quindici anni... Buttarsi a capofitto da una discesa che terminava in un incrocio, con una bicicletta a cui aveva tagliato i freni per evitare ripensamenti dell’ultimo attimo, con il cervello annebbiato dall'alcool. Solo rischiare la vita lo faceva sentire completamente vivo. Questo gioco spaventoso era terminato quando qualcuno, che lo aveva visto per caso, aveva informato suo padre di questo genere di imprese e il buonuomo, terrorizzato, gliene aveva date tante da fargli perdere ogni forza di uscire di casa per quindici giorni, durante i quali si era convinto a cambiare gioco. Non si rendeva conto di essere vivo solo per un caso.
All’ingresso del casinò si fece cambiare i soldi e, arrivato al tavolo della roulette, posò tutte le fiches, bene impilate, sul numero ventisei. Erano dieci fiches da diecimila dollari ciascuna. Gli altri giocatori lo guardavano con curiosità, qualcuno con ammirazione. Il croupier diede un colpo alla ruota e lanciò la pallina. Tre, quattro giri forse, qualche salto fra i numeri. La pallina si fermò dentro la casella dello zero e si sentì un mormorio di disappunto. Lui l’aveva in un certo senso previsto, c’era andato comunque molto vicino. Con lo stesso aplomb con cui era arrivato se ne andò.
Giunto in strada aspettò che il semaforo fosse rosso per i pedoni e, richiedendo l'ultimo sforzo alle sue ginocchia, si tuffò tranquillamente sotto il primo autobus.





giovedì 28 giugno 2018

Gilda


Quando in Istituto arrivava il momento della pausa pranzo Gray spariva per un'ora e andava a trovare la moglie del Rettore, che aveva conosciuto per caso a una festa dei diplomi.
Erano seduti vicini e lei, mentre il Rettore presentava i neodiplomati, gli aveva detto "E' mio marito!". Il dottor Gray, visto soprattutto il generoso decolletè, le aveva risposto "Un discorso splendido!", anche se non ne aveva ascoltato una parola. Era presente a quella festa soltanto per congratularsi con una giovane studentessa di colore a cui aveva dato alcuni chiarimenti per la tesi, oltre alla lettura finale. Era convinto che quella tesi non dicesse niente di nuovo ma il fondoschiena della ragazza lo aveva stregato. C'era anche stato un approccio che lo faceva ben sperare ma la ragazza era stata furba, fermandolo con decisione prima che le cose diventassero inevitabili. Dopo essere andato a farle gli auguri - lei lo presentò anche alla famiglia - portò un calice di champagne alla moglie del Rettore, approfittando di un momento che gli sembrava sola. Lui era dall'altra parte della sala, assediato dagli studenti.  "Grazie dottor Gray" "La prego, mi chiami Henry" "Anche tu, chiamami Gilda". Gilda, l'Atomica, Rita Hayworth. La chioma rossa era identica. "A noi" disse alzando il bicchiere "A noi". Gray la squadrò mentre sorseggiava. Non giovane ma ancora parecchio intrigante. Un seno generoso esposto senza pudore. "Cosa fai domani a pranzo, Henry?" "Il solito panino stantìo, direi" "Vieni da me. Ti farò conoscere l'insalata caprese. Ti piacerà" "Non potrò prima dell'una" "Perfect".
La mattina dopo Gray uscì prima dall'Università per andare da Van Leeuwen Artisan Ice Cream a Brooklyn. Gli avevano detto che era il miglior gelatiere di New York e voleva fare una bella figura. Infatti la torta gelato non era proprio a buon mercato ma quel giorno non voleva sembrare avaro.
Suonò il campanello della casa del Rettore, sulla 110a West. Vicino al lavoro, naturalmente. E se gli fosse venuto ad aprire il Rettore? Era questa la paura che gli aveva impedito di comperare dei fiori. O se fosse venuto più tardi? Nell'istante dell'attesa desiderò sparire. La possibilità di compromettere definitivamente la sua carriera accademica era reale. Le paure si dissolsero nel momento in cui lady Gilda aprì il portone "Accomodati Henry". Anche con la veste da casa il seno, prorompente, era largamente esposto. "Deve essere il suo orgoglio" pensò Gray "E anche la sua arma".
In casa non c'era nessuno, il personale di servizio usciva alle dodici e tornava alle diciassette.
Gray si era documentato sull'insalata caprese, per non fare la figura dell'ignorante in materia culinaria, e sapeva che, in un piatto composto solo da pomodoro e mozzarella italiani ciò che contava era l'eccellenza degli ingredienti. E il piatto che la donna gli portò era eccezionale. Pomodori giganteschi e carnosi "Li faccio venire da un paese piccolissimo della Calabria, Belmonte Calabro. Il suo terroir e il microclima sono unici al mondo. La mozzarella la faccio venire da Sperlonga, nell'Italia centrale, vicino a Roma. Con l'aereo e la confezione sottovuoto arriva in giornata in condizioni perfette. Il basilico viene da Sorrento e l'origano dalla Sicilia. Viene raccolto vicino al tempio di Segesta".Gray restò trasecolato dal sapore e dal racconto. Non osò immaginare il costo che questo piatto poteva avere. "Gilda, non so come ringraziarti. Mi hai portato qualcosa di così buono e così particolare che sono certo che non ne mangerò di simili in vita mia". Oltretutto la porzione era molto abbondante. Gilda gli sorrise con aria di complicità. "Vieni,dottor Gray": rimarcò il cognome con enfasi. "Andiamo a prenderci il caffé sul sofà". Chissà che fine aveva fatto la sua torta gelato. Anche il caffè era buonissimo: aveva un sapore particolare che Gray non aveva mai sentito. "E' il kopi luwak". Mentre sorseggiava il caffé Gilda gli posò una mano sulla coscia, nella metà più vicina all'inguine. Lui posò la tazzina e le accarezzò il seno, sfiorandole il capezzolo. "Vieni, voglio star comoda". Non aveva molto tempo, Gray, ma lo spese al meglio. Quando la donna lo vide senza slip, pronto, ebbe un fremito, pregustando l'attimo in cui, di lì a poco, sarebbe stato parte di lei. Le piaceva fare l'amore e quel cretino di suo marito, il Signor Rettore, sposato per convenienza di entrambi, non l'aveva mai capito. Raro e frettoloso. Assolveva a uno dei suoi tanti doveri senza alcun interesse. Senza gioia. Gilda aveva bisogno di ben altro. Era originaria dell'Ecuador, caliente.
La prima volta fu, per entrambi, un'esperienza meravigliosa; il fascino della novità, che nel giro di qualche mese si sarebbe smorzato. Gray le piaceva molto ed era certa di piacere molto anche a lui. Lo dimostrava la forza con cui la penetrava. Non si domandarono mai se fra loro ci fosse stato il sentimento dell'amore. Ne avevano paura, perché avrebbero dovuto comportarsi di conseguenza e cambiare drasticamente le loro vite. Cosa che non avevano alcuna intenzione di fare.
Si avvicinava il giorno del concorso per il posto di assistente di ruolo. Quando fu il momento Gilda, consapevole che non l'avrebbe più rivisto, gli disse soltanto "Stai tranquillo, Henry. Mi mancherai". Lui le diede l'ultimo bacio e la strinse forte a sé. Quel seno non l'avrebbe dimenticato tanto facilmente.
Per mesi si erano divertiti tutti i giorni.Si erano usati, consapevolmente, con grazia.



venerdì 8 giugno 2018

Sean e Gray

Gray abitava al terzo piano, senza ascensore e con scale buie. Sean si aiutò con la torcia del cellulare per trovare la targa sulla porta. Spinse il bottone del campanello per una frazione di secondo. Era atteso, la porta si aprì subito. Nella penombra riuscì a distinguere soltanto un uomo molto più alto di lui. “Sono Sean”. ”Entri, la stavo aspettando”. Gray si fece da parte e con un gesto amichevole lo invitò ad entrare. La luce era poca anche dentro, data da un paralume grigiastro appoggiato su una scrivania di legno. Si sentiva il brusio della radio accesa in un'altra stanza. Tutto era triste. Polverosi ritratti di donna erano appesi alle pareti di quell'ambiente che era un'entrata, uno studio e, vista la presenza di un divano di pelle sfondato, anche un soggiorno. Un odore di finestre chiuse da troppi giorni. Si sentì sfiorare una caviglia e fece un sobbalzo. “Non si preoccupi di Tobith, è solo affettuoso. E' il suo modo di conoscere e di presentarsi agli sconosciuti”. Sorrideva, un po' divertito. “Si accomodi. Caffè o birra?”. Si avvicinarono entrambi alla poca luce e Sean lo poté guardare meglio in volto. Capelli una volta rossi non tagliati da mesi e non pettinati, sporchi, due baffoni grigi, occhi opachi, un'aria depressa che contrastava con il tono amichevole che il Professore si sforzava di dimostrargli.
Anche il Professore scrutava Sean con curiosità e diffidenza, un bell'uomo, non alto ma atletico, ben più giovane di lui e con un'aria da volpe braccata da una torma di cani insaziabili. Chissà cosa cazzo aveva combinato: quella dello sfratto non se l'era certo bevuta... “Birra, grazie”. “Gelata, naturalmente”. “Naturalmente”.
L'ambiente era deprimente ma sembrava sicuro, ed era questo quello che Sean cercava.
Il Professore arrivò con due bottiglie di Budweiser. “Ne ho il frigo pieno. Beva liberamente”. E una birra ci voleva davvero: gli diede il rilassamento di cui sentiva bisogno. “Con le birre ci potremmo fare due spaghetti”. Gray voleva essere sinceramente amichevole e Sean non aveva mangiato tutto il giorno. La parola “spaghetti” gli ricordò il borbottio del suo stomaco. “Dipende” rispose ridendo, “Lei cucina bene? Io non sono capace”. “Vorrà dire che mi farà da secondo”.
Si spostarono nella cucina, non troppo pulita. “Il sugo di tonno le può andare?”. “Sarà perfetto”. “Allora incominci ad affettare questa cipolla”, e gli mise in mano un coltello che sembrava una baionetta. Era contento, Gray, cucinare solo per sé era sempre tristissimo. E Kate spesso lodava i suoi piatti. Un filosofo italiano, matto come un cavallo, gli aveva insegnato a fare il risotto e lo faceva spesso a Kate, che adorava quello con i funghi secchi.
“Da quanto conosce Corinnah?” chiese improvvisamente il Professore, aprendo con difficoltà la scatola dei pelati, anche essi italiani. “Da pochissimi giorni. Non credo di avere mai incontrato una donna così, eppure ho viaggiato a lungo. Donne ne ho conosciute e non mi sono mai lasciato sfuggire un’occasione. Ma è bastata una serata insieme per capire che avevo trovato la mezza mela da cui Zeus mi aveva separato. Il fatto che fosse la donna di mio fratello non mi ha certo frenato. Lui per un caso del destino me l'ha presentata e adesso penso che per lei potrei lasciare tutto, e scappare, insieme. Per provare a ricominciare...”.
Il Professore fu sorpreso da questa dichiarazione d'amore, e anche dalla citazione del Simposio di Platone, stimolate, a suo modo di vedere, solo da una mezza bottiglia di birra. Anche Sean era stupito di sé: si domandò se in quella birra Gray ci avesse messo il siero della verità.
Buttò gli spaghetti nell'acqua bollente e si finì la birra. Una mezzora sorprendente, passata a cucinare con uno sconosciuto.
Dopo mangiato tutti diventano più chiacchieroni.
“Io Corinnah l'ho conosciuta più di dieci anni fa. Sono stato il suo professore di storia della filosofia alla High School. Un'alunna di grande soddisfazione: vinse anche la borsa di studio per la Columbia. L'ho incontrata per caso ieri che correva in Central Park. E abbiamo ricordato i bei tempi...”. “Chissà come era Corinnah da ragazza” pensò Sean, e poi di accorse di averlo detto. “Non più bella di adesso. Solo più acerba...”. Sean invidiò il Professore: avrebbe voluto esserci anche lui a vederla ragazzina.

venerdì 18 maggio 2018

Corinnah

Quando, due anni prima, aveva fatto le vacanze ad Agadir, in Marocco, fece un'escursione di due giorni ai margini del Sahara. Man mano che la carovana, lentamente, seguiva la pista, Corinnah percepiva intorno a sé un silenzio sempre più denso.
Era come essere circondata da un nuovo mare, non più blu e meno mobile, ma altrettanto affascinante. Portatore di pace infinita; la stessa sensazione di assoluto che solo poche spiagge, dopo il tramonto, le avevano dato.
Col passare delle ore l'aria era diventata così calda e asciutta, nonostante fosse maggio, che Corinnah si sentiva soffocare. La carovana si era fermata in un’oasi, una ventina di grosse tende, alcune collegate fra loro da piccoli passaggi. Un pozzo. Due palme. Nel momento di maggiore calura l'ombra che davano le tende e la corrente d'aria che riuscivano a creare la aiutarono a respirare.
Mangiare con i Tuareg fu piacevolissimo: Corinnah comprese che per mangiare assieme non c'è bisogno di parlare la stessa lingua. La lingua condivisa è il cibo. Per offrire un piatto non c'è bisogno di parole. Per assaggiarlo, gustarlo e apprezzarlo basta la tua espressione di curiosità, di gioia e di gratitudine.
Quello stufato di montone con il cus cus fatto dalle donne, con la giusta dose di spezie – quante volte Corinnah aveva dovuto buttare via con rimpianto una pietanza resa immangiabile dalle troppe spezie che ci aveva buttato dentro – era delizioso, e per mesi ne aveva serbato il sapore, che riusciva distintamente a recuperare al solo pensiero. Il suo compagno di viaggio, e cavaliere, non era riuscito a emozionarsi per quel piatto e Corinnah ne era rimasta delusa.
Le donne dei Tuareg mangiavano separate, dopo gli uomini che mangiavano con gli ospiti: Corinnah ne era infastidita perché la trovava una cosa ingiusta, anche se aveva notato che quelle ragazze trovavano la cosa assolutamente normale.
La sera, dopo una corsa sui cammelli fra le dune spostate dal vento, la cena, fuori dalle tende, era stata più ricca, illuminata da piccoli falò. Le ragazze avevano ballato e dopo poco Corinnah si era unita a loro. Le piaceva ballare, cosa per lei naturale. Era armoniosa e spontanea nei movimenti e aveva presto imparato i gesti del loro volteggiare.
Quella notte andarono a dormire tardi, con l'accampamento illuminato soltanto dai bagliori delle braci che si stavano spegnendo. Era spossata: aveva ballato per ore e aveva perso la nozione del tempo. L'orologio l’aveva lasciato a New York.
Nel sacco a pelo si girava senza riuscire a prendere sonno: doveva smaltire l'eccitazione che la danza le aveva portato e che il té forte aveva rinforzato. Il compagno di viaggio, sdraiato al suo fianco, russava leggermente, a intervalli regolari. Un caro ragazzo e un buon giornalista, nulla di più.
A un tratto, mentre il cielo incominciava a schiarire, sentì intorno a lei dei sospiri inconfondibili. Non avrebbe saputo dire da dove venivano: erano intorno a lei. Sulle prime le venne da ridere: le tende non sono l'ideale per la privacy. Ma non riuscì a distogliere l'attenzione. Si chiese quale delle ragazze che avevano danzato con lei potesse essere; tutte erano molto belle e ognuna poteva regalare a un uomo una notte d'incanto.
La frequenza e l'intensità dei sospiri aumentava. Quello della donna più lentamente, quello dell'uomo a poco a poco diventava un grido trattenuto.
Corinnah fu presa da una frenesia incontenibile. Mise la mano dentro il sacco a pelo del compagno di viaggio e sorrise, immaginandosi il sogno che stava facendo. Si avvicinò alla sua bocca e gli diede un morso sulle labbra; con un secondo morso lo svegliò; gli impedì di parlare mettendogli la lingua nella bocca. Aprì completamente la cerniera del sacco a pelo e gli saltò sopra. Si era già sfilata gli slip. Lui era completamente sveglio: incredulo di tanta fortuna non si tirò indietro. Corinnah, sollevata sul corpo di lui, incominciò a ondeggiare con lo stesso ritmo dei sospiri che sentiva intorno. Ascoltavano in silenzio la voce soffocata del piacere intorno a loro e la fecero propria.
Al mattino Corinnah era convinta di avere sognato, non solo lei.

mercoledì 16 maggio 2018

PARIS


Per quei pochissimi giorni il nostro amore era stato incredibile.
Ricordo con precisione le sensazioni di quei mesi – anche se non ricordo quanti – in cui gli scambi di mail diventarono via via più frequenti e personali, fino ad arrivare a condividere fatti e notizie in sé banali, utili soltanto a far accendere quel pallino verde nel computer.
Ricordo anche quel giorno in cui, per nulla titubante, mi invitò a prendere un caffè a casa sua. Gli slip erano color carne.
Mi mandò a quel paese quando le dissi che c'era anche un'altra, a pochi isolati dal suo attico. Pretendeva qualcosa che io non posso dare a nessuna.

Mi sbuca improvvisamente di fronte questo pomeriggio, nella terrazza panoramica della Tour Montparnasse.
Devo stare due giorni a Parigi per cenare con un funzionario del ministero della Difesa e proporgli la mia mercanzia: venti carri armati, pressoché nuovi, dismessi dall'esercito del Senegal. L'esercito francese ne è sempre carente, e il prezzo è interessante. Prima di cena ritaglio due ore tutte per me e vengo qui ad ammirare la Ville Lumière al tramonto, tanto per svuotarmi il cervello.
Me la vedo uscire dall'ascensore, così vicina da non poter far finta di non vederla: adesso ho altri ami a cui voglio stare dietro...
Ciao!”, ha lo stesso sorriso dolcissimo, quello di cui mi ero innamorato. Si mette al mio fianco e, dopo un attimo, cerca la mia bocca. E' sempre riuscita a stupirmi. Ha due anni più di me ma il calore della sua lingua è quello della prima ragazza che ho baciato. “Stringimi forte!” mi sussurra a un orecchio. “Ma dove cazzo eri finita, brutta stronza!” mi verrebbe da dirle, ma non mi fa parlare.
Si stacca bruscamente tenendomi la mano, poi la lascia.
Va incontro a un uomo appena uscito dall'ascensore, certo più vecchio di me. “Quanto hai impiegato ad arrivare , tesoro!!” cinguetta “Ho perso tempo per comperarti questo”. E tira fuori dalla tasca un pacchetto. Sono abbastanza vicino da riconoscere sulla carta il logo di Cartier. L'avrà comperato a Place Vendôme, il vecchio.
Vorrei aspettare per vedere cosa c'è dentro ma mi infilo dentro l'ascensore e scappo, con la coda fra le gambe e il dubbio di avere sognato. Ma ho una piccola ferita nel labbro.
Stasera, dopo la cena d'affari, me ne andrò a Pigalle.

martedì 15 maggio 2018

Kate

Con il posto di ruolo, che in quell'Ateneo non sarebbe durato per molti anni, era arrivata la stabilità economica ed era comparsa Kate.
Si incontrarono a una conferenza, alla Bobst Library, promossa dalla Cornell University, dove lei insegnava. Gray, ogni giorno della sua vita futura, avrebbe ricordato quel giorno fin nei più minuti particolari. Erano in una sala non molto grande, tutti seduti attorno a grossi tavoli ad ascoltare il relatore che parlava dal tavolo più lontano dalla porta, con una voce così bassa da obbligare al silenzio più assoluto. Era uno studioso di filosofia medioevale e, sorridendo fra sé, Gray immaginò che avrebbe ben potuto essere un uomo di quel tempo. Nobile o servo della gleba? Chierico vagante? Menestrello? Cercò di concentrarsi sull'argomento della relazione, gli scritti giovanili di Pietro Abelardo ma, fatalmente, pensava al volto che poteva avere Eloisa e alla passione che quel viso aveva incendiato in Abelardo.
Gray era andato a quella conferenza con il collega di filosofia teoretica, più per tenergli compagnia che per reale interesse. Girava con lo sguardo cercando qualche ragazza di colore. In biblioteca c'era freddo: gli alti finestroni, ai due lati della sala, facevano filtrare l'aria già umida dell'autunno. Aveva sentito dire che al nord era già arrivata qualche spruzzata di neve.
La dottoressa Kate Evans era assistente volontaria della cattedra di Filosofia della Scienza della Cornell University, laureata da due anni. Non aveva pressante bisogno di un posto di lavoro retribuito, infatti la famiglia le inviava dal Vermont cospicue rimesse mensili, derivate dall'azienda paterna di produzione del latte, e lei poteva dedicarsi gratuitamente alla ricerca e alla didattica. Preparava le lezioni per il docente di ruolo e aveva la soddisfazione di vedergliele leggere senza cambiare una virgola. Ma agli esami, di fronte agli studenti, spesso con una preparazione raffazzonata, era troppo poco severa e per questo più di una volta era stata rimproverata: non poteva promuoverli tutti. Il rapporto fra promossi e bocciati non doveva essere alterato.
Dopo gli applausi di rito al medievalista, per rompere il ghiaccio fu Kate ad aprire la discussione, facendo la prima domanda. A Gray sembrò molto preparata e la ascoltò volentieri. Non si era ancora accorto di lei. Una ragazza minuta, con una camicetta bianca di cotone alla coreana e una rebecchina blu notte. Dato che parlava in piedi Gray poté vederle le gambe, anche se la gonna a tubino non era molto corta. Ritornò ad ascoltarla.
Le domande e le risposte durarono più della conferenza stessa: un bel successo.
Al termine si trasferirono tutti nella sala del brunch, vista l'ora: Gray ricordava che era l'una passata. Nel brusìo generale la vide avvicinarsi e ne fu contento e sorpreso. Kate lo conosceva perché si erano telefonati in passato. “Professor Gray, si ricorda di me? Ci siamo conosciuti al telefono ma non ancora di persona.”. “Certo dottoressa” mentì sorridendo. “Vederla di persona è molto più piacevole che sentirla al telefono. A proposito: complimenti per la sua domanda: rivela una padronanza della materia non comune”. “Non le nascondo che in un certo senso era concordata”. Rise in maniera così confidenziale che Gray restò a bocca aperta. Kate l'aveva notato appena entrato, e si era fatta dire dalla sua amica, quella che conosceva tutti, chi fosse. Non avrebbe saputo spiegarsi cosa le piaceva di lui: quel cespuglio di capelli ramati quasi calato a nascondere gli occhiali, quell'aria ingenua e decisa a cambiare il mondo che avevano avuto i giovani nel '68. Chissà...

venerdì 11 maggio 2018

Ada

Incomincio oggi la pubblicazione di sparsi brani presi, non a caso, dal romanzo che sto scrivendo.

Pensò a Corinnah. Voleva averla di nuovo, anche se era la donna di suo fratello. Chissà che lui non avrebbe fatto lo stesso: con le donne Roddy non era uno stinco di santo. Anzi.
Ricordava bene Ada, quella giovane italiana che aveva conosciuto in consolato. Una bellezza profondamente italiana, con lunghi capelli scuri, incurante della sensualità che emanava da ogni gesto e da ogni parola. Incurante ma totalmente consapevole. Nelle sue mani gesti e parole erano armi.
Vedendolo passare a fianco a lei aveva lanciato a Sean uno sguardo molto espressivo, perché si era accorta che la coda per ottenere il visto era insopportabilmente lunga. E lui aveva capito tutto al volo. “Please, Miss, come into my office!”. Le aveva offerto il braccio e l'aveva fatta sedere davanti alla sua scrivania. Il timbro glielo era andato a mettere lui, passando dietro il bancone ma non così accortamente da non suscitare, nelle persone in coda, grida, risate e qualche insolenza per quella bella italiana, “Bitch, puttana”. Tanto lei non poteva sentire e anche se avesse sentito non avrebbe fatto una piega. Sean entrò in ufficio con la carta timbrata in mano e sbatté la porta. Nessuno si sarebbe permesso di entrare. Si sedette sulla sedia a fianco della donna, che aveva già compreso, e deciso, come ringraziarlo.
Non era alta, Ada, ma aveva un corpo aggraziato e rotondetto, con le curve regolari e al punto giusto. Nella sua Sorrento le avrebbero detto “Si proprio 'nu babbà.”. La si guardava con il desiderio di morderla, ma senza farle male.
Lei si alzò, si voltò verso di lui e, alzando leggermente la gamba destra, si sedette sulle sue gambe. La corta gonna le si sollevò ancora di più e Sean, appoggiando le mani dove prima c'era la gonna, la spinse contro di sé. Quella donna sconosciuta baciava con forza e delicatezza: lui la lasciò fare in silenzio, gustando l'energia di quella lingua. La spingeva ritmicamente verso di sé e lei, appoggiandosi sui tacchi, lo assecondava. Sean riuscì a sentire il calore bagnato in mezzo alle gambe di lei: stava oltrepassando quel punto oltre il quale non avrebbe capito più niente e agito senza pensare, come un animale assetato. Le slacciò i bottoni della camicetta con i denti e affondò il volto fra i suoi seni. Ada, slacciandosi il reggiseno, gli mormorò, in italiano, “Ti piacciono?”. Lui non capì ma continuava ad accarezzarglieli.
Non aveva paura dei rapporti occasionali, Sean. Tante volte aveva rischiato la vita che la possibilità di un'infezione di quella nuova malattia di cui si parlava non gli passava neanche per l'anticamera del cervello. Non rifletté neanche sul fatto che tanta disponibilità potesse essere concessa non solo a lui. Finirono per terra, con le bocche incollate per non far sentire l'ànsito dei loro corpi annodati. Una mezzora da leoni. Sean le offrì un bicchiere di quel Mezcal Añejo che talvolta il console gli regalava. Quello con la larva dentro. Finalmente le disse “Come ti chiami?”. “Ada Prisco”. “Io sono Sean”.
Si videro spesso nelle settimane successive, e i loro rapporti sessuali furono indimenticabili perché sempre furiosi. Ada aveva in mezzo alle gambe il fuoco del Vesuvio, nascosto, prontissimo ad esplodere.
L'unico errore che Sean fece con lei fu quello di presentarla a Roddy. Lo incontrarono per caso un pomeriggio, dopo una delle loro migliori notti, seguita da una padellata di gamberi carabineros infiammati con il bourbon. Uscirono alle quattro diretti a Central Park, per godersi un po' di sole. Roddy riconobbe il suo fratellastro da lontano, stupito che fosse riuscito a portarsi in giro una donna così bella. Quel giorno era appena andato al salone di Nunzio Saviano e i suoi capelli, corvini, erano perfetti. E infatti lui era andato a farsi un giro con il desiderio di essere ammirato: sapeva di essere vanitoso.
Bastò l'occhiata che Ada ricambiò a Roddy per far capire a Sean che quella notte era stata l'ultima volta: non poteva, non voleva competere con Roddy: aveva verso di lui un sentimento di inferiorità.
Non la vide più per molti mesi: non l'aveva mai pensata come “la sua donna”, e tanto meno come “il suo amore”, ma vedersela scomparire così lo lasciò con la sensazione di qualcosa di tristemente incompiuto.
Più di un anno dopo, saranno state le tre e mezzo di notte, la rivide passando per Jackson Heights,
al ritorno da una missione per conto del governo svizzero. Truccata pesantemente, con una gonna ancora più corta di quella che aveva quel giorno in consolato, e uno sguardo avvilito. Quando lei lo riconobbe si voltò per non doverlo salutare. Del resto lui andava di fretta. Un gran bastardo, Roddy: l'aveva buttata in mezzo a una strada.
Ada sarebbe rimasta dentro di lui, assieme al dolore di non aver potuto, o voluto, salvarla.

lunedì 9 aprile 2018

CENTO PAROLE

Abbiamo liberato l'Italia. Scesi dalle montagne  circoliamo sui nostri camion lungo la via Emilia, senza più doverci nascondere. Il vento ci scompiglia i capelli e ci accarezza.
Vogliamo iniziare a fare giustizia, quella con la G maiuscola. 
E non abbiamo perso tempo. Iersera, alla cascina di Giuse, il primo della lista. 
Li abbiamo sorpresi davanti a una tavola imbandita, mitragliati con la bocca piena. Tre bambini, c'erano. Abbiamo preso il pane.
Stamattina il vento è gelido. Mi viene in mente quella poesia che ho fatto in tempo a studiare a scuola "... e restò negli aperti occhi un grido...".

(2014) 

 

domenica 1 aprile 2018

Questo brano l'ho recuperato mettendo in ordine fra le mie carte. L'ho scritto nel 2013 - 2014


Il dottore è stato chiaro. Non ha minimamente tenuto in considerazione il fatto che io mi senta davvero bene. Mentre leggeva l'esame istologico che gli ho portato, del quale io ho capito ben poco, cambiava espressione. “Non molto tempo”, mi ha detto, evitando, per un garbo di cui non lo credevo capace, di pronunciare la parola “mesi”. Mi fa sorridere l'idea che invece possa trattarsi di “giorni”.
Appena arrivato a casa ho avuto un attimo di smarrimento perché il silenzio mi ha sempre dato addosso, anche se me lo sono guadagnato alla grande.
Radio, benedetta radio. Vorrei ubriacarmi; i personaggi dei romanzi che ho letto fanno così: a me però fa stare male.
Un bicchiere di Bitter Campari colmo, con tanto ghiaccio, potrà bastare.
Col bicchiere posato davanti all'angolo destro del sottomano, quasi fosse un piatto segnaposto, incomincio a scriverle, depresso in una casa deprimente.
Via via che riempivo le pagine sentivo la tensione scemare, anche se cresceva il timore che lei, appena visto il mittente, le cestinasse.
Non è stato un testamento, soprattutto perché non ho niente da lasciare oltre ai ricordi, pochi belli, la maggior parte dolorosi. Le cose di cui ho amato circondarmi non hanno alcun valore venale.
Ho cercato soltanto di spiegarle, guidando in quest'ultima curva, quali e quante siano state le paure che hanno governato la mia esistenza.
Anche se viviamo nell'epoca della posta elettronica, oggi le manderò solo una lettera con un francobollo, per non negarmi il piacere di pensare che una lettera possa perdersi nelle tasche della borsa di qualche postino, e magari arrivare dopo che io avrò voltato la curva...

Non sono molti gli anni da quando sono rimasta sola. Certo, mia figlia viene spesso, ma d'altronde ha la sua vita.
Ho dovuto metterlo alla porta, quell'uomo che non voglio neanche più nominare, dopo l'ultima che mi ha fatto. E dire che tante gliene avevo perdonate, ma non c'è stato verso. Una volta di più non è stato capace di trattenersi.
L'ho messo alla porta non solo perché l'ho ritenuto incapace di cambiamento ma perché ho compreso finalmente la distanza che ci separa. A nulla sono valsi gli anni di vita insieme e le cose, tante, che abbiamo condiviso. Vive, viveva, perché adesso non so che fine abbia fatto, in un mondo tutto suo, a me inaccessibile.
E stamattina, al ritorno da quel poco di spesa che mi obbligo a fare per non stare chiusa in casa tutto il giorno, trovo questa busta nella casella della posta, gonfia di fogli. Quanti anni saranno che non ricevo una lettera? È sua,  posata sul tavolo in cucina, ancora chiusa. Devo decidere se aprirla. Non ho la più pallida idea di cosa ci possa essere scritto ma non credo che voglia tornare. In questo senso mi incuriosisce, anche se ho deciso che non voglio più condividere niente con lui.

Sono passati tre giorni e la busta è ancora lì, posata sul tavolo. Non ho nemmeno il coraggio di toccarla, sarò stupida. Come se mi potesse trasmettere ancora altro male oltre a quello che ho ricevuto. Squilla il telefono. E' mia figlia, è facile esserne certa, perché non mi telefona nessuno.
Chissà cosa vorrà dirmi.





lunedì 26 marzo 2018

Adoro i centri commerciali.
Entrambi condividiamo il piacere di vagare per negozi, allineati secondo un criterio sconosciuto, e passeggiamo sereni, consapevoli che solo l'uno per mille di quello che vediamo finirà nei nostri cassetti. Siamo venuti a P. per ovvi motivi, e questo tenero pomeriggio di maggio avvolge la sua felicità. Ci stringiamo la mano con forza, come sempre, anche se l'artrosi non lo permette più come un tempo.
Tranquilli, un poco sfaccendati.
Lei guarda con interesse certa lingerie, per niente dozzinale, che a me suscita fantasie serali.
Giriamo dietro un pilastro e improvvisamente lo vedo. Sarà distante cinquanta passi. Sento la pressione salire nelle orecchie. Non riesco a dire una parola. Il flusso dei pensieri si è sciolto nel vuoto.
Cosa ci fa qui, a cinquecento kilometri da casa? Forse non mi ha visto. Non è semplice voltarsi con disinvoltura, mano nella mano, senza dare un violento strattone.
Lei, ancor prima dello strattone, percepisce la tensione senza capirne il motivo.
Trattenendo il desiderio di correre torniamo sui nostri passi.
Mi è sembrato solo, ma come sempre nulla è come appare. Avrà anche lui fatto cinquecento kilometri per lo stesso mio motivo?
Chissà cosa avrà pensato.
La serata mi sembra rovinata.



lunedì 29 gennaio 2018

Hernàn

Hernàn, a settantadue anni, aveva ben compreso i segnali che la tendenza inarrestabile all'entropia, gli inviava sempre più spesso.
Dapprima periodi di pochi secondi, seduto nella macchina ferma davanti a un semaforo, in cui aveva l'improvvisa sensazione di trovarsi in un luogo sconosciuto, incapace di muoversi e di andare in una qualsiasi direzione, appena infastidito dai clacson irritati. L'ultima volta una donna si era avvicinata al finestrino chiuso gridandogli se si sentisse bene e lui aveva scosso la mano sinistra per dire “tutto OK”, ma con lo sguardo spento. Quando a casa voleva cucinare qualcosa, tanto il tempo libero ormai era troppo, si metteva in linea tutti gli ingredienti e gli strumenti necessari per un bel piatto e d'un tratto incominciava a fissare il tavolo dimèntico di tutto, come se quegli oggetti non avessero per lui più alcun significato. Passato quel momento, penosissimo, doveva ricordarsi la ricetta a partire da quello che aveva di fronte e spesso, non riuscendovi, era preso da una collera furiosa che lo spingeva a buttare tutto nel secchio. Quel giorno il suo pasto sarebbero stati riso bollito e formaggio, freddi di frigorifero. Non riuscendo neanche più a dormire si sedeva sul divano a occhi aperti, ancora nervoso. Se avesse chiuso gli occhi avrebbe visto la solita sarabanda di morti e di vivi, persone reali che diventavano personaggi di una commedia sgradevole.
Erano pochi gli anni passati dalla pensione e, oltre alla sensazione di prendere dei soldi che, non lavorando, pensava non gli spettassero, sentiva profondo il cambiamento in peggio della sua vita. Certo, l'ironia che lo aveva sempre caratterizzato gli faceva nascondere bene la sua pena di fronte a gli altri, ma non di fronte a sé stesso. Nessuno in casa poteva immaginare quanta sofferenza lo accompagnava in ogni momento della giornata.
La parola che nessuno doveva mai permettersi di pronunciare, “vecchio” era il rumore assordante che gli rimbombava continuamente nelle orecchie. Hernàn non aveva paura della morte: spesso si figurava il momento dell'ultimo respiro come quello di un addormentamento: forse per questo motivo , per una paura non detta, prendere sonno ogni notte era sempre più complicato. Ma davvero non aveva paura della morte. Ciò che lo terrorizzava era quel periodo, di durata orribilmente ignota, in cui forse sarebbe diventato un morto vivente, peso e ingombro a sé stesso, non più consapevole, motivo di dolore e di nostalgia per chi lo circondava. E poi c'era lei.
Hernàn, prima che arrivasse l'incoscienza più completa, avrebbe voluto compiere quel gesto di totale autodeterminazione che gli avrebbe permesso di morire con dignità e di non sgretolarsi nel nulla dell'incoscienza. Alcuni lo avevano fatto e lui, venendolo a sapere, pensava che avessero fatto bene. Non riusciva a immaginare se sarebbe riuscito a mettere in atto quella decisione.
Il problema, anche in questo caso, era lei. Si sentiva responsabile e le voleva risparmiare una vecchiaia piena solo di solitudine e di malinconia. Aveva sofferto e aveva avuto una vita difficile, e il passare del tempo non aveva certo migliorato la situazione. Seduto a occhi aperti sul divano pensava a lei, e capiva che stava diventando un vecchio demente.
Doveva inventarsi qualcosa.

Venti anni aveva sua nipote Gabriela. Studiava, senza ammazzarsi – ma questo era un atteggiamento di tutta la famiglia, e non necessariamente negativo – alla facoltà di Matematica di Cordoba e spesso aveva un'aria sognante e svagata che al nonno ricordava il proprio deterioramento. Era per questo che le era tanto affezionato. La chiamò al telefono, utilizzando una rubrica cartacea che aveva ricominciato a usare, dopo tanti anni. Anche questo un bel segno di regressione.
“Ciao Gabrielita, quando hai dieci minuti per tuo nonno? Forse riesco anche a cucinarti qualcosa...”. “Domani, e all'ora di pranzo”. “Ti aspetto, Chiquita. Non mi deludere”. “Non è mai successo”. “Una volta, mi sembra”. “Ah, ah, vecchio pazzo”. Era l'unica nipote che aveva preso completamente il suo senso dell'ironia: la adorava per questo. “Cosa vorrà da me nonno?” pensò Gabriela “Aveva un tono di segretezza. Vedremo”.
Tornò a occuparsi dell'esame di Geometria. La matematica era bella, e ai tempi del liceo l'aveva adorata. Ma era semplice. Studiarla all'Università era stato molto più difficile del previsto. Ciò che per qualche suo fortunato compagno di studi era oggetto di naturale intuizione per lei era il frutto di uno studio totalizzante e di durata a volte neanche prevedibile.
Stare un paio d'ore col nonno sarebbe stato un delizioso diversivo.

Arrivò all'una meno un quarto. La aspettava un piattino di crocchette di pollo e prosciutto con la salsa aioli semplicemente spettacolari. “Andiamo al parco di Miraflores a sederci di fronte al Guadalquivir. Ti devo fare una proposta economica” le disse Hernàn dopo che lei ebbe finito di sbafarsi l'ultima striscia di aioli. Gabriela restò perplessa. Essendo vicini al parco e in una giornata di sole pieno non si rimise neanche il cappotto e uscirono di casa presto.
Il nonno era silenzioso, come se rincorresse, con difficoltà, certi suoi pensieri. Lei incominciò a parlargli del suo ultimo ragazzo, che al momento portava le pizze a domicilio. Quando pronunciò la parola “amore” Hernàn parve risvegliarsi dalle sue riflessioni e le chiese, guardandola nei occhi neri con i suoi occhi tremolanti: “E' un grande amore?” “Io vorrei di sì”. “Come si chiama?” “Luisito”. “Fammelo conoscere prima che io muoia”. “Allora c'è tempo, abuelito”.
Erano arrivati sulla panchina che Hernàn aveva scelto e pensato da vari giorni. Abbastanza tranquilla perché leggermente più distante da tutte le altre, comoda e non troppo soleggiata. Di fronte al fiume, tranquillo. Si sedettero a guardarlo.
“Chiquita, potrebbe arrivare un giorno in cui non sarò più in grado di venire qui, e non perché dovrò starmene a letto malato ma perché potrei non essere più capace di trovare la strada”. Gabriela capì bene il senso di quella frase: anche lei aveva notato, da mesi, piccoli segni, momenti in cui lo sguardo era perso nel vuoto, ricerche insensate di oggetti posti sotto gli occhi, risposte sconnesse a semplici domande. Nella voce del nonno sentì il timore della voragine.
“Vorrei che tu fossi la mia guida quando arriverà quel momento. Mi porterai qui, tutte le volte che potrai e siederai vicino al mio silenzio. Il regalo te lo faccio subito cosicché tu non debba aspettare una promessa nel testamento. E il regalo è un regalo, non deve suggellare nessun impegno. Solo perché ti voglio bene, Chiquita”.
Le mise in mano un assegno con quattro zeri. “Questo sarà il nostro segreto”.
Gabriela avrebbe voluto abbracciarlo con una forza che non aveva mai avuto: quel vecchio scimunito ancora una volta era riuscito a sorprenderla. Realizzò che se avesse parlato ai suoi dell'assegno quei soldi sarebbero diventati patrimonio, legittimo, della famiglia. Ma potevano anche essere un aiuto insperato per trasferirsi a Madrid.
Gabriela diventò la guida di Hernan, i cui occhi presto divennero vuoti. Uno dei primi giorni di queste gite si sedette sulla panchina, nello spazio libero a fianco di Hernàn, una signora, che a Gabriela sembrò avere un aspetto familiare. Una signora non molto alta, con un bel casco di capelli biondi, biondi per i colpi di sole. E con due occhi celesti le cui iridi avevano un orletto giallo luminosissimo. Il sorriso di una bambina. Si sedeva vicino a lui e stava in silenzio. Gabriela notò che quando lei arrivava il nonno, anche se non riusciva più a parlare, sembrava più rilassato.
Fu la signora che in un giorno di cielo coperto incominciò a parlare con Gabriela. Aveva un tono di voce piacevole e cortese e incominciarono, giorno dopo giorno a conoscersi. Hernàn sembrava che ascoltasse: qualche volta borbottava frasi incomprensibili che, stranamente, la signora sembrava comprendere. Nel giro di poche settimane questo incontro a tre divenne una piacevole abitudine a cui Gabriela non avrebbe rinunciato facilmente, e i giorni che la signora non compariva la rendevano nervosa. Non solo lei.
Come dio volle arrivò il giorno in cui Hernàn perse completamente la strada. La nipote temeva quel momento ma non era preparata.
La signora continuava a venire e Gabriela condivideva con lei il dolore profondo per quella perdita. 
Il nonno cercò con un gesto impercettibile la mano della signora e la strinse con forza. Lei sorrise e Gabrielita, finalmente, capì.