domenica 16 aprile 2017

Lapsus



Dopo tanti mesi finalmente è arrivata la telefonata. Nel frattempo ho fatto l'aiuto panettiere (come facevo in Iran), che non è male, tanto non dormo quasi niente: dopo due ore che sono andato a letto sono già in piedi, vispo come un grillo. E' anche un lavoro interessante: ogni giorno ha un diverso impasto per il pane così come ogni giorno ha portato con sé una diversa ansia nell'attesa di essere chiamato.
E il giorno è finalmente arrivato. So che sarà domani ma non so nulla di più. Le istruzioni le riceverò stasera dopo la preghiera del tramonto. Mia moglie mi ha detto che è felice ma io non mi domando se lo sono: so soltanto che faccio il mio dovere. Sono stato in attesa silenziosa e adesso è il momento. Li lascerò in buone mani e spero di fare bene, e che i miei superiori siano soddisfatti di me.
Mi sono addormentato davanti alla televisione, con in braccio il più piccolo dei miei quattro figli. Mia moglie ha risposto al telefono e mi ha chiamato. Ho sentito una voce aspra, seccata. Non mi ha neanche dato il tempo di scusarmi: mi ha soltanto detto, e a denti stretti, "Istituto Bertoncini, corso Firenze. Ore 9.30”. Il sibilo ininterrotto della cornetta ha sigillato l'indirizzo del Paradiso.
È mezzanotte e domattina non potrò andare a lavorare. Non conosco questo posto ed è un bene: nessuno potrà risalire a me. Intanto me lo cerco su Google Maps: è in centro, saranno almeno otto kilometri da dove abito con la mia famiglia. Per essere lì alle 9 e mezza dovrò uscire di casa non più tardi delle sette. Qui gli autobus non sono molto efficienti e comunque devo mescolarmi alla folla dell'ora di punta. Il bus lo prenderò al capolinea, così mi siedo e potrò tenere lo zaino saldamente appoggiato sulle cosce.
Ho trovato corso Firenze su Maps. È una zona centrale della città e, a giudicare dal verde che si vede, credo che non sia una zona proprio popolare... ecco, questo è l'istituto Bertoncini. Ma... cazzo! E' un asilo d'infanzia!!!
Per un attimo mi si annebbia la vista e l'attimo dopo mi si allagano gli occhi. So che devo obbedire per ottenere la felicità eterna ma una parte di me, quella sotto il collo, si rifiuta di capire. Si rifiuta, semplicemente. Mi pulsano le orecchie. Quanti bambini ci saranno lì dentro domani mattina? Certo, figli di infedeli, padri e madri infedeli che hanno rovinato il mondo e hanno sradicato dalla società il beneficio del sentimento religioso, dandogli come controparte solo la televisione. Non meritano null'altro che la morte. Ma i bambini che male possono avere fatto? Nonostante sia un buon mussulmano e studi il Corano tutti i giorni questa cosa mi riesce difficile da capire.
Non so per quanto tempo mi sarò assopito, in un sonno agitato, popolato da vergini che ad avvicinarle si trasformavano in bambini dilaniati dai visi dolenti, e il ribrezzo che mi suscitavano guardandoli mi faceva scappare gridando.
Mi sveglio alle sei, affannato e sudato e mi accendo una sigaretta di quelle che mi hanno spedito, raccomandandomi di fumarne tante. Aspirando questo fumo dolciastro mi sento pervadere da una serenità finta, serenità che è soltanto incapacità indotta di provare un qualsiasi sentimento.
Il letto dove dormivamo tutti insieme è vuoto e sfatto: capisco che lei non abbia voluto vivere questo momento. Sa benissimo che dobbiamo obbedire, ma non ha voluto essere sopraffatta dal dolore della separazione. È stata una buona moglie mussulmana e Dio gliene renderà merito.
Esco di casa senza voltarmi, fumando, anche perché non riuscirei a trattenere in corpo alcunché. Tutto procede come da copione. Arrivo alla stazione Brignole con il cuore tranquillo: il tumulto ce l'ho nella pancia, ad onta di queste schifose sigarette. Ho bene impresso nella mente dove dovrò andare: istituto Firenze, corso Bertoncini. Tanto è l'anticipo che decido di andarci a piedi: mi mescolerò alla folla e sarò soltanto un orientale di più che popola i marciapiedi di Genova.
Manca mezz'ora. Mi sta salendo l'ansia perché non sono ancora riuscito a trovare questo maledetto corso Bertoncini. Non ho portato il cellulare per ovvi motivi e per trovare questo posto devo affidarmi a passanti e negozianti, ma nessuno dice di conoscerlo. Anzi, mi guardano con aria sospetta.
Sono le dieci meno un quarto e non so più bene cosa fare. Lo zaino è diventato pesantissimo. Sono disperato per non essere riuscito nel compito che mi era stato affidato. Non posso più tornare a casa. 
Mi dirigo verso il mare, che vedo da lontano, camminando come un automa comandato a distanza. Non so cosa fare ma so una cosa: non voglio avere sulla coscienza un asilo pieno di bambini.
Entro in acqua vestito, stamattina sulla spiaggia libera non c'è nessuno. Quando l'acqua mi arriva al collo tiro la cordicella.