mercoledì 6 dicembre 2017

LIRICI GRECI

Sono arrivata in città per questo stage semestrale organizzato dall'Istituto Orientale: argomento "i lirici greci", stage pagato integralmente dalla Normale di Pisa che sto frequentando. E' bella Napoli: per noi del Nord sembra di stare in un pianeta diverso, e non solo per la lingua: pazziàre e pàzein sono la stessa cosa. Napoli è bella come Atene. I napoletani e gli ateniesi hanno lo stesso modo di andare incontro alla vita, con gioia e follia. Io invece sono una studentessa seria, certi grilli per la testa non li ho mai avuti. A Treviso siamo tutti seri e tristi.
Adesso la cosa più importante è lo studio, e in questo cerco di eccellere, anche perché presto dovrò condividere con i ragazzi il mio grande amore per l'antichità. L'anno prossimo il mio tutor di Pisa mi manderà agli scavi archeologici in corso all'ippodromo di Delos e questi mesi a Napoli sono una preparazione del lavoro che farò sul campo.
I lirici greci posso dire di conoscerli bene ma vorrei che qui mi venissero dati gli strumenti per tradurli nella maniera più poetica possibile: tradurli letteralmente è un'attività quasi automatica ma sento spesso la difficoltà di esprimere i sentimenti che dietro quelle parole emergono confusamente. E' facile tradurre "òptais àmme" - tu mi fai bruciare - ma è difficile partecipare del dolore mischiato all'amore che Saffo riesce a esprimere in queste due parole. Mi aspetto molto da questo stage.

L'Istituto orientale mi ha fornito l'alloggio in un convento di monache: è una stanza spoglia ma la scrivania è ampia e la finestra , orientata a sud, dà sul golfo di Napoli. Il silenzio del convento mi è amico e il coprifuoco, alle dieci di sera, mi auiterà a lavorare la mattina presto, così da avere due ore tutte per me prima di andare in Università. Dopo una settimana di lezioni poco entusiasmanti e di noiose esercitazioni di traduzione a studenti svogliati ho conosciuto la Professoressa Serena Amato, il ricercatore alle cui cure Pisa mi ha affidato.
Quanti anni avrà: sembra giovanissima. Mi ha stretto la mano con una forza inaspettata. Ha uno sguardo penetrante. Sono riuscita a malapena a dirle il cognome. La sua bocca creo che l'abbia disegnata Raffaello. la prima cosa che mi ha detto è stata "Diamoci del tu".
Ha una giacchetta rossa senza bottoni e senza colletto, su cui ricadono lunghi boccoli castani.  La guardo ma non riesco a capire una parole di quello che dice. "Ille mi par esse deo videtur" dice Catullo, mi sembra simile a un dio. Il rossetto ha lo stesso colore della giacca, un rosso vivace ma non volgare. Mi sorprendo a guardarla come fosse un maschio. L'ultimo che ho guardato così ha preso il volo due mesi fa: voleva una donna che stesse tutto il giorno in casa, come sua madre. Io non cucino volentieri: piuttosto me ne sto al bar tutta la giornata con i miei libri, caffè libero e due pacchetti di Lucky Strike: è per questo che la pelle mi diventa tutta grinzosa.
Serena mi propone un caffè e io mi ascolto dirle sì. La seguo, camminando in una bolla di fumosa che mi attutisce la vista e l'udito. Riesco comunque a capire quello che dice, che non ha nulla a che fare con i versi di Mimnermo ma solo con rossetti e fondo tinta. Mi sento una foglia sbattuta al vento delle sue parole. Dopo mezzora che mi parla realizzo che è bellissima. Mi prende sottobraccio, come due amiche da sempre.
Con la tazzina nella mano tremolante le chiedo come sarà il mio impegno quotidiano: una risata napoletana, squillante e sincera ma soprattutto "di pancia" mi fa capire che in questo semestre le idee che ho sulla studio e soprattutto sulle persone cambieranno.
Ha incominciato con i consigli sull'abbigliamento. Io non sono mai andata oltre le gonne a portafoglio e le camicette bianche di lino. Estate e inverno. Ma, con lei al fianco, mi sono ricreduta sul valore dello shopping.
Serena, quando decide che è venuto il momento di lavorare, profonde tutta sé stessa in quelle tre o quattro righe del frammento che abbiamo sotto gli occhi. E non traduce, incomincia a raccontare storie che non sembrano avere niente a che fare con quel pezzetto di poesia ma, andando avanti ad ascoltarla, mi fanno capire il senso profondo, il sentimento dietro alla mano del poeta. E mi riempio di gioia.
Oggi pomeriggio, dopo quattro ore passate su Archiloco, ore splendide e faticose, mi ha portato da Caflisch, una pasticceria famosa di Napoli fondata da una svizzero. Siamo entrambe stanche e lei è silenziosa. Sorseggiamo il caffè con la sfogliatella e ridiamo ricordando il monologo del caffè di Eduardo in "Questi fantasmi". Fra noi in una settimana si è creata questa complicità.
Improvvisamente mi stringe forte la mano. Gli occhi e le labbra, pur immobili, mi hanno detto qualcosa e subito, come pentita, ha volto lo sguardo al di là della vetrina. Forse me lo aspettavo, forse non volevo crederci. Le ho detto che non sapevo se con una donna ne sarei stata capace. Mi ha sussurrato "òptais àmme" mettendomi il braccio dietro la spalla, così da spingere la mia bocca verso la sua.
Eventualmente imparerò.















domenica 28 maggio 2017


Fitti goccioloni freddi
rigano il vetro della cucina,
si confondono con le lacrime.
Pioggia muta, come le parole che non so più dire.

Ho creduto, io speravo, mi sono illuso
ho messo il cuore davanti alla dignità
e l'amore avanti a tutto.

Oggi sprofondo in un'inquieta solitudine
e la tua mancanza brucia.

Ho fame di te.


sabato 27 maggio 2017

Violante

Violante si controllò il rossetto e balzò sulla carrozza della metropolitana nel momento in cui le porte si chiudevano. Aveva davanti a sé dodici fermate prima di arrivare in Tribunale. Si sedette lontano dagli altri passeggeri perché voleva riflettere ancora.
Quel delinquente del suo assistito meritava qualcosa di più della galera ma lei doveva farlo assolvere. Si mordeva le labbra per non mettersi a gridare quanto fosse ingiusto il mestiere di difendere chi le aveva detto, nella quiete del suo studio, che quella donna l'avrebbe volentieri ammazzata di botte, e che quelle che le aveva dato non erano ancora abbastanza. E lei avrebbe dovuto convincere un giudice ad assolvere questo schifo di uomo, per il quale figlio e moglie erano solo oggetti di proprietà. E si sa, gli oggetti non hanno diritti.
Nel momento in cui la donna – e con quanta ragione – aveva richiesto l'affidamento del bambino la furia si era scatenata su di lei. Quaranta giorni di prognosi, salvo complicazioni.
E lei, in Tribunale, avrebbe dovuto dimostrare che c'era stata una provocazione, e che la madre negava alla bestia il diritto di frequentare il figlio, e di portarlo con sé in quella casa orribile. Lei la conosceva, per esserci stata una volta. Lì lui viveva, con la madre e due sorelle.
Violante si aggiustò la gonna che le era salita troppo sopra le ginocchia: pensando si dimenava e un ragazzetto le si era sistemato davanti per godersi lo spettacolo. Non possiamo dire che quegli sguardi di adolescente non le procurassero un filo di eccitazione. Sapeva bene di essere molto sexy e usava con disinvoltura il corpo per ottenere i risultati giudiziari che voleva. Raramente anche fuori delle aule.
Poggiò la cartella sulle cosce e il teatrino finì. Il ragazzo scese dalla carrozza.
All'arrivo scese controvoglia: avrebbe pagato per nascondersi in qualche buio ripostiglio. E invece salì affannosamente le scale, chissà che non si potesse anche rompere un tacco e avere una qualche scusa per arrivare tardi, quando magari l'udienza avrebbe potuto essere rinviata. E invece no: le tre ore di spinning che faceva ogni sera le avevano forgiato due gambe scattanti e veloci.
Si sentì salire la nausea, e capì che quel poco di colazione che aveva ingoiato non sapeva più che direzione prendere. Sudava dappertutto e questo la metteva ancora più a disagio.
Come dio volle arrivò in Corte d'Assise, con gli occhi gonfi e la faccia stralunata. L'usciere le disse preoccupato “Avvocato, non si sente buono?”. “Lasciami stare. Non è giornata”.
Andò a sedersi al proprio posto e tirò fuori il fascicolo dalla cartella.
E lui infine entrò.
Maschio latino, uno e novanta, occhi gelidi acqua marina. Palestrato. Un sorriso feroce. Appena la vide le fece un segno alzando i polsi ammanettati, con uno sguardo che significava “Non devi sbagliare”. Violante fece finta di non averlo visto ma si sentì rabbrividire.
E così l'udienza incominciò, con l'esame dei testimoni, da parte dell'accusa e da parte della difesa. Era brava Violante, e smontò, una per una, tutte le testimonianza a sfavore.
Al momento dell'arringa si trasformò. La si sarebbe detta una leonessa ferita, anche nell'aspetto. Ogni argomento tirò fuori, ogni giustificazione, per cercare di suscitare emozioni profonde nei giudici popolari. Il Presidente la conosceva bene, e per questo era un po' distratto.
Lei parlò per un'ora, e alla fine dell'arringa chiese un bicchier d'acqua.
Alle 15 discese stanca le scale della metropolitana. Durante quelle dodici fermate avrebbe desiderato di essere posseduta da uno sconosciuto.
Il suo cliente ricevette una condanna minima.


domenica 16 aprile 2017

Lapsus



Dopo tanti mesi finalmente è arrivata la telefonata. Nel frattempo ho fatto l'aiuto panettiere (come facevo in Iran), che non è male, tanto non dormo quasi niente: dopo due ore che sono andato a letto sono già in piedi, vispo come un grillo. E' anche un lavoro interessante: ogni giorno ha un diverso impasto per il pane così come ogni giorno ha portato con sé una diversa ansia nell'attesa di essere chiamato.
E il giorno è finalmente arrivato. So che sarà domani ma non so nulla di più. Le istruzioni le riceverò stasera dopo la preghiera del tramonto. Mia moglie mi ha detto che è felice ma io non mi domando se lo sono: so soltanto che faccio il mio dovere. Sono stato in attesa silenziosa e adesso è il momento. Li lascerò in buone mani e spero di fare bene, e che i miei superiori siano soddisfatti di me.
Mi sono addormentato davanti alla televisione, con in braccio il più piccolo dei miei quattro figli. Mia moglie ha risposto al telefono e mi ha chiamato. Ho sentito una voce aspra, seccata. Non mi ha neanche dato il tempo di scusarmi: mi ha soltanto detto, e a denti stretti, "Istituto Bertoncini, corso Firenze. Ore 9.30”. Il sibilo ininterrotto della cornetta ha sigillato l'indirizzo del Paradiso.
È mezzanotte e domattina non potrò andare a lavorare. Non conosco questo posto ed è un bene: nessuno potrà risalire a me. Intanto me lo cerco su Google Maps: è in centro, saranno almeno otto kilometri da dove abito con la mia famiglia. Per essere lì alle 9 e mezza dovrò uscire di casa non più tardi delle sette. Qui gli autobus non sono molto efficienti e comunque devo mescolarmi alla folla dell'ora di punta. Il bus lo prenderò al capolinea, così mi siedo e potrò tenere lo zaino saldamente appoggiato sulle cosce.
Ho trovato corso Firenze su Maps. È una zona centrale della città e, a giudicare dal verde che si vede, credo che non sia una zona proprio popolare... ecco, questo è l'istituto Bertoncini. Ma... cazzo! E' un asilo d'infanzia!!!
Per un attimo mi si annebbia la vista e l'attimo dopo mi si allagano gli occhi. So che devo obbedire per ottenere la felicità eterna ma una parte di me, quella sotto il collo, si rifiuta di capire. Si rifiuta, semplicemente. Mi pulsano le orecchie. Quanti bambini ci saranno lì dentro domani mattina? Certo, figli di infedeli, padri e madri infedeli che hanno rovinato il mondo e hanno sradicato dalla società il beneficio del sentimento religioso, dandogli come controparte solo la televisione. Non meritano null'altro che la morte. Ma i bambini che male possono avere fatto? Nonostante sia un buon mussulmano e studi il Corano tutti i giorni questa cosa mi riesce difficile da capire.
Non so per quanto tempo mi sarò assopito, in un sonno agitato, popolato da vergini che ad avvicinarle si trasformavano in bambini dilaniati dai visi dolenti, e il ribrezzo che mi suscitavano guardandoli mi faceva scappare gridando.
Mi sveglio alle sei, affannato e sudato e mi accendo una sigaretta di quelle che mi hanno spedito, raccomandandomi di fumarne tante. Aspirando questo fumo dolciastro mi sento pervadere da una serenità finta, serenità che è soltanto incapacità indotta di provare un qualsiasi sentimento.
Il letto dove dormivamo tutti insieme è vuoto e sfatto: capisco che lei non abbia voluto vivere questo momento. Sa benissimo che dobbiamo obbedire, ma non ha voluto essere sopraffatta dal dolore della separazione. È stata una buona moglie mussulmana e Dio gliene renderà merito.
Esco di casa senza voltarmi, fumando, anche perché non riuscirei a trattenere in corpo alcunché. Tutto procede come da copione. Arrivo alla stazione Brignole con il cuore tranquillo: il tumulto ce l'ho nella pancia, ad onta di queste schifose sigarette. Ho bene impresso nella mente dove dovrò andare: istituto Firenze, corso Bertoncini. Tanto è l'anticipo che decido di andarci a piedi: mi mescolerò alla folla e sarò soltanto un orientale di più che popola i marciapiedi di Genova.
Manca mezz'ora. Mi sta salendo l'ansia perché non sono ancora riuscito a trovare questo maledetto corso Bertoncini. Non ho portato il cellulare per ovvi motivi e per trovare questo posto devo affidarmi a passanti e negozianti, ma nessuno dice di conoscerlo. Anzi, mi guardano con aria sospetta.
Sono le dieci meno un quarto e non so più bene cosa fare. Lo zaino è diventato pesantissimo. Sono disperato per non essere riuscito nel compito che mi era stato affidato. Non posso più tornare a casa. 
Mi dirigo verso il mare, che vedo da lontano, camminando come un automa comandato a distanza. Non so cosa fare ma so una cosa: non voglio avere sulla coscienza un asilo pieno di bambini.
Entro in acqua vestito, stamattina sulla spiaggia libera non c'è nessuno. Quando l'acqua mi arriva al collo tiro la cordicella.

lunedì 2 gennaio 2017

Tornare

Sto tornando a casa.
Guido distratto, canto assieme alla radio. A momenti mi commuovo: certa musica mi fa questo effetto. L'andirivieni del tergicristallo mi annoia e mi istupidisce. Ho fame e c'è buio.
Dopo tanto tempo ho davvero voglia di ritornare: certo, restano i mille problemi da risolvere, ma mi è tornata la voglia di riprovarci. In questo senso la lontananza mi è servita: questi mesi di sofferenza non sono stati pochi ma anche essi hanno avuto un senso.
In questa strada c'è buio davvero.
Improvvisamente la macchina ha un sobbalzo, come se avessi urtato un marciapiede, ma qui marciapiede non ce n'è, sono ancora fuori città. Per un lungo secondo ho il desiderio di proseguire ma rallento e mi fermo. Faccio un po' di retromarcia, la luce bianca del fanale illumina la strada. Dopo una ventina di metri lo vedo. Un mucchio di stracci da cui sporgono due piedi nudi. Non ci credo. Sono stanco morto. Non ci voleva... fra l'altro non ho neanche un ombrello in macchina. Una voce che non riconosco mi ordina di scendere. Tentenno ancora un attimo. Tanto sarà un cadavere, non ha più bisogno di aiuto. E se gli fossero restati addosso i segni delle mie ruote? Menate a non finire....
Accosto e scendo. La pioggia fitta e fredda di gennaio mi penetra gelida nel cuore. Provo con delicatezza a scoprire quel fagotto. E allora incomincio a tremare. E' viva, avrà diciassette anni. Il viso è gonfio e bluastro: non so che razza di bestia possa averla ridotta così. Ha solo bisogno di aiuto. La prendo in braccio: uno scricciolo di una trentina di chili. La devo portare di corsa in ospedale, anche se mi interrogheranno e mi romperanno i coglioni a non finire. Pazienza. Questa bambina ha bisogno urgente di cure, avanti a qualsiasi altra considerazione che io possa farmi.
La sollevo sotto la pioggia battente, che le dilava il sangue rappreso dal viso, ormai irriconoscibile. La infilo in macchina, di dietro. Guido con la più grande delicatezza e non penso a niente, meno male che so dove è l'ospedale. La radio della macchina l'ho spenta. Mi domando se ce la faremo.
Non so pregare e penso che sarebbe inutile, adesso però mi piacerebbe farlo. Dài piccola, resisti.
Arriviamo finalmente al Pronto Soccorso, e me la portano via dalla macchina e dalla vista. Mi siedo su una seggiola sgangherata della astanteria. Dopo poco, troppo poco, mi viene cercare un poliziotto, per fare il verbale: gli racconto quello che è successo. Mi sembra incredulo, ma non credo di doverlo convincere. In realtà mi interessa sapere solo come sta. E' per questo che dopo avere firmato il verbale ritorno a sedermi. Aspetto delle ore, forse mi sono addormentato. Mi sveglia di soprassalto lo scalpiccìo dei passi di due persone. Entrambi hanno un camice bianco. Mi avvicino e chiedo loro come stia la ragazza. "Quale ragazza?" mi chiedono. "Quella che ho portato verso le nove". "Ah, è morta dopo dieci minuti. Un'emorragia interna da traumi multipli".
Mi sento svenire. Ascolto la mia voce dire "Grazie. Che dispiacere".
Adesso posso uscire. Cammino nel buio e nel silenzio, e dopo avere oltrepassato di pochi metri il muro di cinta dell'Ospedale incomincio a gridare e a piangere senza limiti: non posso e non voglio crederci. La pioggia ormai non mi dà più alcun fastidio. Tutto quello che ho fatto, credendoci con tutto me stesso, non è servito a niente. E' immotivato il dolore per una sconosciuta, il mio cervello me lo dice. Ma il cuore non ragiona. E cammino nel silenzio rotto soltanto dai miei latrati, incurante di allontanarmi dalla macchina che mi deve riportare a casa.
Sento improvvisamente un dolore alla schiena, un dolore che non avevo mai provato. Non capisco come mai sono caduto. Sento anche il gusto dei sassolini della strada mescolato al sapore del mio sangue, che ben conosco. La schiena mi fa malissimo. Mi gira la testa e mi viene da vomitare. Sento delle voci estranee ma non capisco quello che dicono, sono uomini. Sento ancora, con difficoltà, il rumore di macchine che si allontanano.
Mi sto addormentando e mi passa la vita davanti,come in un film in pochi secondi. Me l'avevano detto. Non so che vita sia stata la mia. Ma so che non sarei stato capace di viverla diversamente.
Mi sono addormentato.