mercoledì 28 gennaio 2015

"FINCHE' MORTE NON CI SEPARI"

Ho sposato Amalia, “la donna che non sapeva parlare”, che avevo soltanto vent'anni, e credevo di amarla, ad onta di quel suo piccolo difetto. Dopo il primo bacio mi disse, tutta trepidante “Tesoro, meno male che ho usato un dentifricio antitarme!”. Feci finta di niente, pensando di avere sentito male.
Al ritorno dal viaggio di nozze lei disse raggiante a mia madre “Siamo stati in un albergo di una lussuria sconvolgente!”, e la povera donna mi guardò con aria di rassegnata e impotente commiserazione.
E così ogni giorno della nostra breve vita coniugale veniva condito dalle frasi inverosimili di questa donna dal capello rosso e dal profumo pungente, con ben due occhi verdi ma un unico piccolo neurone, vagante in un contenitore per lui troppo ampio. Frasi talora comiche, sempre inopportune. Persino mio padre non venne risparmiato dal suo pericoloso brio, e in una serata fra amici la nuora se ne uscì fuori con un “mio suocero appartiene a una famiglia di alto linciaggio”, poco dopo avere chiesto al cameriere una porzione abbondante di "calci in bocca alla romana".
L'ho uccisa tutt'a un tratto, portandola a visitare il cantiere dove a quel tempo lavoravo, e facendole inopinatamente rovesciare sulla sua bella ma deserta testolina una betoniera piena di “calce a spruzzo”.
Sic transit gloria mundi.

Non molti anni dopo ho conosciuto Lara, graziosa trentenne, e mi sono innamorato del suo bel viso nello spazio di un minuto, sposandola nel volgere di una settimana. Un grazioso nasino appena accennato all'insù, un'ovale degno di Raffaello, un'incarnato che a me ricordava il rosato di certi tramonti d'autunno, silenziosi e raccolti. Non avevo ancora capito che lei fosse “la donna che non sapeva cucinare”.
Non mi stupì molto a quel tempo il fatto che ogni sera lei insistesse per andare al ristorante, anzi la trovavo una richiesta accettabile, tutt'al più leggermente dispendiosa, non un segno premonitore.
E quando finì il viaggio di nozze ricominciò quella vita quotidiana, dalla cui noia lei avrebbe dovuto liberarmi. Attività che le riuscì perfettamente.
Ricordo in ogni particolare la prima sera che tornai a casa dal lavoro, felice, affamato, curioso.
E' difficile mettere la pasta nel piatto con metà della sua acqua di cottura, eppure lei ci riuscì, perché aveva deliberatamente programmato di diluirvi la passata di pomodoro, versandola direttamente dalla latta. Forse avrei preferito una punta di zucchero, ma capii che lei aveva versato un intero cucchiaio di sale in quella che, con azzardata iperbole, chiamò "pummarola". La carne ai ferri per non esser da meno arrivò in tavola nerastra, cosparsa di verdi chiazze di un'erba aromatica resa irriconoscibile con volontà malefica.
Non passò più di un mese, durante il quale sopravvivere fu davvero impegnativo, che una domenica decisi di prepararle un pranzetto io, tre portate, una più entusiasmante dell'altra, di cui lei purtroppo poté apprezzare soltanto la prima, che emanava una tenue fragranza di mandorle amare.

Non sono più un ragazzo ma ho ancora un discreto aspetto. Nel mio vagabondare attraverso l'altra metà del cielo sono incappato in Graziella, di poco più giovane di me. Già da anni la conoscevo e debbo dire che mi è sempre piaciuta, ma incontrandola ogni giorno alla mensa aziendale la guardavo solamente con la coda dell'occhio, senza rendermi conto che lei era proprio “la donna che sapeva fare l'amore”.
Le mie due deludenti esperienze mi hanno dato una certa pericolosa presunzione, per cui una sera ho preso il coraggio a quattro mani e le ho telefonato.
Non mi ha insospettito il fatto che fosse così cordiale, e che mi dicesse di andare subito a bere qualcosa da lei, anzi quella sera ho pensato che la mia stella mi guardasse con benevolenza e mi sono messo in macchina con la camicia di seta color fucsia, non prima di di essere passato in gelateria. Una vaschetta di gelato per due, gusto limone.
Fosse stato per lei non avrebbe neanche chiuso la porta: l'ho fatto io, con un calcio. I bottoni della camicia sono saltati con lieve scoppiettio. Mi ha trascinato nella sua cuccia con la forza di una donna di Neanderthal e mi è saltata addosso, incollando la sua bocca alla mia. E' stato bellissimo quel bacio, anche se non respiravo troppo bene perché lei era a cavalcioni del mio torace. Peccato che proprio quel bacio sia stato il mio ultimo ricordo, perché con quella lingua è riuscita a soffocarmi, tardiva e inconsapevole vendicatrice.
Il gelato se lo è finito da sola.