giovedì 30 luglio 2015

La scrivania

Avevano appena finito di celebrare al dio ventre e lui, forse più degli altri, si trovava in quello stato di intorpidita inebetitudine che precede l'oblio del sonno. Anche quel giorno, a dispetto del tempo e della stagione, aveva trovato tutto quello che gli sarebbe servito per cucinare, e il rito era stato al solito preparato con grande cura. Ogni ingrediente era stato cercato meticolosamente, a incominciare da quel rosmarino imbastardito dal profumo della buccia del limone che tanto gli piaceva. I suoi commensali, verbalmente avari, gli avevano dimostrato quanto grati gli fossero e quanta stima avessero di lui pulendo fiamminghe e pentole quasi da non aver più bisogno di lavarle. E questo gli fece sprizzare la gioia dagli occhi, anche se l'odore di limone nel rosmarino non erano stati capaci di riconoscerlo. Lo abbracciarono forte, accomiatandosi.
La celebrazione del rito in pompa magna era stata come sempre solo l'occasione, un abilissimo ma faticoso diversivo, per distoglierlo dal pensiero fisso di lei. Infatti, in quelle sei ore, come un maestro di yoga, lui riusciva a fare un vuoto nella sua mente, un piccolo vuoto che gli dava sollievo e una goccia di serenità.
Si sedette finalmente al suo tavolino, dando le spalle alla finestra, e senza voltarsi sentì su di sé la stanca luce del pomeriggio, sempre più indebolita dal subentrare della sera. D'inverno già alle tre il sole scendeva dietro alla casa di fronte, inondandola per pochi minuti di un alone rossastro.
Meno male che tutti erano usciti. Solo la tigre era sdraiata per terra, in una posa innaturale perché esageratamente rilassata: sonnecchiava a occhi aperti, certo pronta a un improbabile scatto.
Accese la radio, bassa, e cercò un po' di musica classica, perché ne sentiva la necessità.

Cucinando invece si ascolta il rock, che impedisce di star fermo anche solo un attimo. Cucinando non senti la fatica, godi solo del divertimento. Ti mancherebbe soltanto un po' di quella polverina bianca che si tira su col naso..... ti consoli con il vino bianco. La fatica, e una sensazione poco chiara di disagio, la senti dopo, quando tutto è finito. Il disagio viene forse dal fatto che ti rendi conto che hai dato il meglio, ogni santa volta, e chissà se la prossima sarai all'altezza....

Tirò fuori dal cassetto il quaderno per scrivere. La tigre russava dolcemente, così piano che a tratti non si sentiva. In radio trionfava Bach. Tutto era pronto per incominciare, e al posto giusto. La penombra aveva conquistato la stanza, spezzata soltanto dal paralume che ingialliva dolcemente il foglio del quaderno aperto. Ma non riusciva ancora a "partire": lui sapeva bene che non era il "blocco" dello scrittore - lui non si reputava in tutta onestà uno scrittore, tutt'al più un artigiano della parola -, era solo l'affollamento nel cuore di tutte le cose che avrebbero voluto trasferirsi sulla pagina, ottenendo con quei segni blu una specie di vita propria, segni che comunque a una buona parte dell'umanità sarebbero risultati incomprensibili, anche se, per un caso più che fortuito, un qualche malinconico scrittore russo fosse venuto a sapere della loro esistenza.
Incominciò,talvolta lo faceva, disegnando con quattro righe un reticolo di nove caselle, ciascuna riempibile con un pallino o con una crocetta. Un elementare gioco, da scuola elementare, infatti. Era ben consapevole della stupidità di fare da solo un gioco che deve essere fatto in due, un gioco che, nella sua assoluta semplicità, ben potrebbe essere considerato il prototipo dei giochi "a due". Il passo successivo avrebbe potuto essere una partita a scacchi da solo. Ma non è possibile. Non è possibile, cioè, alternativamente assumere due diverse personalità, entrambe con l'equipotente desiderio di prevalere sull'altra.

Certo, non è possibile, ma sarebbe bello non avere bisogno di nessuno per la propria vita, essere in tutto autonomo. A principiare dal gioco. Del resto cosa è l'amore, se non un gioco?

Comunque lui si era formalmente impegnato, e gli schemi, tutti finiti in pareggio, fiorivano sulla bella carta Fabriano, che un pittore avrebbe usato per disegnare, magari uno studio di un nudo di donna, una damina con seni vagamente conici, non più grossi di una coppa da cocktail Martini.
Dobbiamo pensare che nella sua mente si fosse fatta strada la convinzione che, a furia di dài e dài, un (involontario?) attimo di distrazione avrebbe fatto breccia in uno dei due contendenti e l'altro, gongolante, avrebbe finalmente prevalso, segnando l'agognato tris, orizzontale, verticale o diagonale, i più difficili da percepire con il colpo d'occhio. E per riuscirci si trattava soltanto di fare tutto di corsa.
Al secondo foglio si fermò: lei si era di nuovo impadronita della sua testa. L'avrebbe dovuta rivedere lunedì, a cena. Si domandò quanto voglia avesse davvero di rivederla, e si sorprese a non sapersi rispondere con chiarezza.
Cincischiando con la penna gli venne in mente l'ultima volta che erano andati al mare insieme, l'unica, quando lei indossava quel due pezzi verde ancor più che striminzito, provocante, e sorrise pensando agli sguardi di desiderio che quella ragazza suscitava, e al suo orgoglio nell'abbracciarla platealmente davanti a tutti, in quel baretto sulla spiaggia. In quel momento la sua felicità era stata semplice e completa: chissà se così era stato per lei? Nulla di quella donna era facilmente comprensibile.
Adesso nello studio entrava solo il buio, e lui, aiutato dalla fioca luce del paralume, mescolava abilmente ricordi e fantasie, ancora senza scrivere niente. Se lì vi fosse stato un altro uomo, a lui non visibile, lo avrebbe per certo scambiato con un ospite di quei manicomi per persone agiate, che pietose ancorché ricche suore si industriano a chiamare "Casa di cura San Qualcosa": ma manicomi restano, con il cruccio, per i congiunti, di avere esperito in prima persona e tramite una sonora facciata, che non si può ottenere né comperare tutto, ad onta di sostanze monetarie più o meno cospicue sottratte (loro dicono guadagnate) al bene comune.
Chiuse gli occhi con dolcezza e se la rivide ancora davanti agli occhi, nell'abito da sera che la fasciava quando erano andati a vedere Don Giovanni alla Scala.

Ti rivedo sfavillante e raggiante, in quell'abito lungo di seta nera con le paiettes, davvero scollato perché tu te lo potevi ben permettere. Eri felice, e sorridevi a quel tripudio di luci e di voci, e avresti voluto sorridere a ogni singola persona, e infatti tutti ti sorridevano, gli uomini con una punta di desiderio, le donne con una punta d'invidia. I capelli li avevi raccolti dietro e tenuti fermi con quel grosso ago dorato che avevamo comperato insieme, da quell'orefice veneziano che tanto aveva insistito per mettertelo lui sui capelli la prima volta, e tu ti schermivi arrossendo.
Io invece, irrigidito un poco nello smoking a noleggio, perché stretto, ero oggetto di curiose occhiate e di qualche risolino, tesi a domandarsi come fosse mai possibile che un uomo così vilmente ordinario potesse cingere, non senza difficoltà, un tale cigno. Come sono stati belli quegli attimi.....a me bastava questo per essere felice. Tu lo eri?

Il vecchio si era appisolato, e al risveglio non avrebbe saputo dire per quanto. Del resto non aveva mai voluto mettere un orologio nel suo studiolo, il tempo che passa non doveva essere un freno ai suoi sogni, e ai suoi rimpianti.
La tigre, annoiata, era andata altrove a cercarsi un po' di vita.







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