giovedì 30 luglio 2015

La scrivania

Avevano appena finito di celebrare al dio ventre e lui, forse più degli altri, si trovava in quello stato di intorpidita inebetitudine che precede l'oblio del sonno. Anche quel giorno, a dispetto del tempo e della stagione, aveva trovato tutto quello che gli sarebbe servito per cucinare, e il rito era stato al solito preparato con grande cura. Ogni ingrediente era stato cercato meticolosamente, a incominciare da quel rosmarino imbastardito dal profumo della buccia del limone che tanto gli piaceva. I suoi commensali, verbalmente avari, gli avevano dimostrato quanto grati gli fossero e quanta stima avessero di lui pulendo fiamminghe e pentole quasi da non aver più bisogno di lavarle. E questo gli fece sprizzare la gioia dagli occhi, anche se l'odore di limone nel rosmarino non erano stati capaci di riconoscerlo. Lo abbracciarono forte, accomiatandosi.
La celebrazione del rito in pompa magna era stata come sempre solo l'occasione, un abilissimo ma faticoso diversivo, per distoglierlo dal pensiero fisso di lei. Infatti, in quelle sei ore, come un maestro di yoga, lui riusciva a fare un vuoto nella sua mente, un piccolo vuoto che gli dava sollievo e una goccia di serenità.
Si sedette finalmente al suo tavolino, dando le spalle alla finestra, e senza voltarsi sentì su di sé la stanca luce del pomeriggio, sempre più indebolita dal subentrare della sera. D'inverno già alle tre il sole scendeva dietro alla casa di fronte, inondandola per pochi minuti di un alone rossastro.
Meno male che tutti erano usciti. Solo la tigre era sdraiata per terra, in una posa innaturale perché esageratamente rilassata: sonnecchiava a occhi aperti, certo pronta a un improbabile scatto.
Accese la radio, bassa, e cercò un po' di musica classica, perché ne sentiva la necessità.

Cucinando invece si ascolta il rock, che impedisce di star fermo anche solo un attimo. Cucinando non senti la fatica, godi solo del divertimento. Ti mancherebbe soltanto un po' di quella polverina bianca che si tira su col naso..... ti consoli con il vino bianco. La fatica, e una sensazione poco chiara di disagio, la senti dopo, quando tutto è finito. Il disagio viene forse dal fatto che ti rendi conto che hai dato il meglio, ogni santa volta, e chissà se la prossima sarai all'altezza....

Tirò fuori dal cassetto il quaderno per scrivere. La tigre russava dolcemente, così piano che a tratti non si sentiva. In radio trionfava Bach. Tutto era pronto per incominciare, e al posto giusto. La penombra aveva conquistato la stanza, spezzata soltanto dal paralume che ingialliva dolcemente il foglio del quaderno aperto. Ma non riusciva ancora a "partire": lui sapeva bene che non era il "blocco" dello scrittore - lui non si reputava in tutta onestà uno scrittore, tutt'al più un artigiano della parola -, era solo l'affollamento nel cuore di tutte le cose che avrebbero voluto trasferirsi sulla pagina, ottenendo con quei segni blu una specie di vita propria, segni che comunque a una buona parte dell'umanità sarebbero risultati incomprensibili, anche se, per un caso più che fortuito, un qualche malinconico scrittore russo fosse venuto a sapere della loro esistenza.
Incominciò,talvolta lo faceva, disegnando con quattro righe un reticolo di nove caselle, ciascuna riempibile con un pallino o con una crocetta. Un elementare gioco, da scuola elementare, infatti. Era ben consapevole della stupidità di fare da solo un gioco che deve essere fatto in due, un gioco che, nella sua assoluta semplicità, ben potrebbe essere considerato il prototipo dei giochi "a due". Il passo successivo avrebbe potuto essere una partita a scacchi da solo. Ma non è possibile. Non è possibile, cioè, alternativamente assumere due diverse personalità, entrambe con l'equipotente desiderio di prevalere sull'altra.

Certo, non è possibile, ma sarebbe bello non avere bisogno di nessuno per la propria vita, essere in tutto autonomo. A principiare dal gioco. Del resto cosa è l'amore, se non un gioco?

Comunque lui si era formalmente impegnato, e gli schemi, tutti finiti in pareggio, fiorivano sulla bella carta Fabriano, che un pittore avrebbe usato per disegnare, magari uno studio di un nudo di donna, una damina con seni vagamente conici, non più grossi di una coppa da cocktail Martini.
Dobbiamo pensare che nella sua mente si fosse fatta strada la convinzione che, a furia di dài e dài, un (involontario?) attimo di distrazione avrebbe fatto breccia in uno dei due contendenti e l'altro, gongolante, avrebbe finalmente prevalso, segnando l'agognato tris, orizzontale, verticale o diagonale, i più difficili da percepire con il colpo d'occhio. E per riuscirci si trattava soltanto di fare tutto di corsa.
Al secondo foglio si fermò: lei si era di nuovo impadronita della sua testa. L'avrebbe dovuta rivedere lunedì, a cena. Si domandò quanto voglia avesse davvero di rivederla, e si sorprese a non sapersi rispondere con chiarezza.
Cincischiando con la penna gli venne in mente l'ultima volta che erano andati al mare insieme, l'unica, quando lei indossava quel due pezzi verde ancor più che striminzito, provocante, e sorrise pensando agli sguardi di desiderio che quella ragazza suscitava, e al suo orgoglio nell'abbracciarla platealmente davanti a tutti, in quel baretto sulla spiaggia. In quel momento la sua felicità era stata semplice e completa: chissà se così era stato per lei? Nulla di quella donna era facilmente comprensibile.
Adesso nello studio entrava solo il buio, e lui, aiutato dalla fioca luce del paralume, mescolava abilmente ricordi e fantasie, ancora senza scrivere niente. Se lì vi fosse stato un altro uomo, a lui non visibile, lo avrebbe per certo scambiato con un ospite di quei manicomi per persone agiate, che pietose ancorché ricche suore si industriano a chiamare "Casa di cura San Qualcosa": ma manicomi restano, con il cruccio, per i congiunti, di avere esperito in prima persona e tramite una sonora facciata, che non si può ottenere né comperare tutto, ad onta di sostanze monetarie più o meno cospicue sottratte (loro dicono guadagnate) al bene comune.
Chiuse gli occhi con dolcezza e se la rivide ancora davanti agli occhi, nell'abito da sera che la fasciava quando erano andati a vedere Don Giovanni alla Scala.

Ti rivedo sfavillante e raggiante, in quell'abito lungo di seta nera con le paiettes, davvero scollato perché tu te lo potevi ben permettere. Eri felice, e sorridevi a quel tripudio di luci e di voci, e avresti voluto sorridere a ogni singola persona, e infatti tutti ti sorridevano, gli uomini con una punta di desiderio, le donne con una punta d'invidia. I capelli li avevi raccolti dietro e tenuti fermi con quel grosso ago dorato che avevamo comperato insieme, da quell'orefice veneziano che tanto aveva insistito per mettertelo lui sui capelli la prima volta, e tu ti schermivi arrossendo.
Io invece, irrigidito un poco nello smoking a noleggio, perché stretto, ero oggetto di curiose occhiate e di qualche risolino, tesi a domandarsi come fosse mai possibile che un uomo così vilmente ordinario potesse cingere, non senza difficoltà, un tale cigno. Come sono stati belli quegli attimi.....a me bastava questo per essere felice. Tu lo eri?

Il vecchio si era appisolato, e al risveglio non avrebbe saputo dire per quanto. Del resto non aveva mai voluto mettere un orologio nel suo studiolo, il tempo che passa non doveva essere un freno ai suoi sogni, e ai suoi rimpianti.
La tigre, annoiata, era andata altrove a cercarsi un po' di vita.







martedì 30 giugno 2015

Rondini

Tornando a casa Alberto rifletteva sui casi della sua vita. Lo faceva sempre, anche se parlare di "riflessione" sarebbe stato improprio. Mentre la riflessione è attività con una sua capacità, tendenza almeno, sistematica, Alberto esperiva soltanto la presenza di un tumulto di folla assiepato dentro la sua mente, forse solo dentro il cuore, da cui, improvvisamente, emergevano volti, suoni, ricordi, più o meno ben strutturati. Gente che lo accompagnava sempre, talora coinvolgendolo così disperatamente da distrarlo dalla guida o dal cammino. Con evidenti rischi per la propria e altrui sicurezza.
Spesso questi ricordi erano talmente vividi da allagargli improvvisamente gli occhi, anche se a farlo piangere, come lui avrebbe desiderato, non ci riuscivano mai. Un pianto a dirotto, a suo modo liberatorio. Ma come fai, in mezzo alla strada o sul lavoro, ti hanno anche spiegato che lo fanno solo le bambine... Un pianto che magari, giorno dopo giorno, avrebbe potuto cancellare questi personaggi, invece che risospingerli nella folla nebbiosa da cui sarebbero ricomparsi.
Quindi Alberto, con gli occhi e il naso pieni, camminava fra una folla esterna e una interna, assediato, se così vogliamo dire.
Che ora sarà stata quando infilò la chiave nella toppa della porta di casa? Forse le otto. Era arrivato per primo.
Teneva sempre in frigo una bottiglia di champagne, quello che aveva conosciuto in Francia negli anni della maturità. Quella sera decise di aprirla e, forse, di bersela tutta. Non aveva grandi speranze che le bollicine gli migliorassero l'umore ma pensava che fosse giusto provarci. Cercò un bel calice. Sistemò la seggiola sul terrazzo e si riempì il bicchiere. Seggiola senza braccioli, una bianca seggiola da cucina, scrostata, bisognosa di un paio di mani di riverniciatura. Scomoda, sostanzialmente.
Appoggiò il gomito sulla ringhiera, bevve un piccolo sorso fresco e pungente e provò a svuotarsi di tutte le cose della giornata. Ma quando mai!
Solo a chiudere un attimo gli occhi gli saliva un magone incontrollabile. La millesima cosa che pensò fu che un corso di yoga avrebbe potuto sicuramente fare al caso suo.... del resto quella era la vita che si era plasmato, giorno dopo giorno, piene di incertezze e scelte sbagliate, errori se vogliamo usare questa parola: lo yoga non avrebbe certo potuto cancellarla, non era il suo compito istituzionale. E non è, badate bene, che Alberto non riuscisse ad accettare questa vita, solo che c'erano momenti, giorni, in cui si sentiva letteralmente affogare.
Abitava in città, ovvio, ma al limitare della campagna. E a quell'ora della sera il silenzio era ingentilito soltanto dalle lontane grida, spaurite, di un neonato che allenava i polmoni nel mentre che reclamava il seno.
Ecco, il seno. Quello che più apprezzava nelle donne, quella che più gli dava la sensazione, piacevolissima, di "avere" una donna. Del resto quello che le donne hanno in mezzo alle gambe, fatte salve rare varianti anatomiche, è desolatamente uguale per tutte. Il seno per fortuna no. Il seno, per sua natura, partecipa di due esperienze della vita, anche se non nello stesso momento. E' la fantasia che le riavvicina.
"Ciao Alberto!". La rondinella si era posata con dolcezza sulla ringhiera, improvvisamente, e lui, come sempre dietro ai suoi fantasmi, ebbe un piccolo sussulto. "Ciao Bella, comment ça va?". La rondinella lo guardava negli occhi, che esprimevano il desiderio che almeno lei rispondesse "Très bien!". "Bene, vecchio mio, bene. E' bella questa primavera. Ho appena finito di farmi il nido".
Alberto pensò alla sua casa, che sua non era. Sapeva che da un momento all'altro avrebbe potuto non abitarvi più. Non se ne crucciava granché, anche se comunque era motivo di ansia...
"Rondinella, se stasera mi racconti qualcosa di bello mi farai felice". Lei lo guardava, anche essa con gli occhi lucidi, e ad Alberto sembrava che quegli occhietti esprimessero grande tristezza. Ci volle più di un quarto d'ora prima che lei parlasse. Forse ad Alberto sarebbe bastato, ma questo non possiamo saperlo, che lei spiccasse il volo, con un garrito gioioso nel suono e ignoto nel contenuto. Sarebbe bastato almeno a risvegliargli un sorriso. E invece no.
"Ma tu pensi davvero, piccolo uomo sciocco, che la felicità ti possa venire da fuori? Che cosa ti dovrei raccontare? O forse che cosa ti dovrei cancellare? Pensi che abbia questo potere? Ogni giorno della tua vita hai messo un mattone, diritto o storto che fosse, e adesso la costruzione è ormai fatta. Certo, traballa. Non vorrei sembrarti brutale, non si addice a una rondinella, ma a questo punto sono tutti cazzi tuoi.....".
Alberto credette di leggere in quel becco un filo di scherno. "Ritornava una rondine al tetto. L'uccisero, cadde tra spini......Brutta troia, troverai anche tu una fionda maligna".
"Non ti preoccupare rondinella, se sono arrivato fin qui sarò ben in grado di proseguire".
Non voleva darle quella soddisfazione, di dirle che era meno furbo di una rondine qualsiasi. Era certo che proseguire sarebbe stato sempre più faticoso.
La rondine spiccò il volo. Anche lui si alzò dalla sedia, con il desiderio, l'idea, la paura, di fare un piccolo salto.






venerdì 12 giugno 2015

Braccio corto

"Ho programmato una settimana di ferie per andare in montagna con gli amici. Come al solito mia moglie l'ha presa malissimo e, insieme a mia suocera, mi hanno insolentito in lungo e in largo. A nulla è valsa la giustificazione che la spesa è irrisoria e il periodo, la terza settimana di novembre, è per lei lavorativo. E nulla significa anche il fatto che davvero vado in vacanza con gli amici per scarpinare sulla neve con un paio di sci sulle spalle (gli impianti di risalita per noi non esistono) e non in giro con qualche bionda recuperata di straforo.
Abbiamo noleggiato un vecchio Fiat 850T, nominalmente a sette posti, ma noi ci adattiamo e due posti in più li recuperiamo. Certo, dobbiamo viaggiare con lo zaino sulle gambe ma la fatica non ci fa paura. Siamo tutti abbastanza magri.
Siamo partiti alle 18 e viaggeremo tutta la notte. Evitiamo l'autostrada come il fumo negli occhi, le strade statali sono più varie e panoramiche. E gratuite.
Arriveremo a Lachen, secondo le previsioni, domattina verso mezzogiorno.
La notte passa tranquillamente, fra turni di guida e discorsi sul tempo. Abbiamo abbastanza esperienza (son quasi vent'anni che andiamo a camminare sui monti) e le previsione meteo avverse non ci preoccupano più di tanto.
Non ci fermeremo neanche per mangiare: ci siamo portati un pezzo di spalla cotta che condividiamo insieme a quelle fette di pancarré comperate al discount tedesco sotto casa di Lino. Ognuno ha la sua borraccia. Quando troveremo adeguato spiazzo ci fermeremo per quei bisogni che in macchina non si riescono proprio a fare. Specie se si è in nove.
Arriviamo a Lachen alle due del pomeriggio, un poco contrariati per il ritardo portato dall'intenso traffico, non previsto. Dobbiamo cercare Biberzeltenstrasse, la "strada dell'accampamento del castoro", un nome in un certo senso profetico. E non è difficile arrivarci. Al 13 di questa strada, che non sai distinguere se di campagna o di città, c'è una villetta che più "svizzera" di così non si potrebbe, con il tetto che a due terzi del suo digradare addolcisce la pendenza, e il prato recintato da un muretto di cemento con finto disegno di mattoni, inferiormente, e, in alto, una griglia che assomiglia alle strisce di pasta frolla sulla crostata. Quanto tempo sarà che non ne mangio? Non so neanche se mia moglie sia mai stata capace di farla. E di comperarla non se ne parla neanche.
Il nostro ospite è un simpatico vecchietto, "svizzero" anche lui, Herr Von Dänicken, dall'età poco definibile così come il colore degli occhi, ridotti a una fessura che all'estremità laterale si tripartisce. Non è poi così alto e una certa gibbosità dorsale ce lo fa apparire ancor più basso. Ci fa entrare rapidamente perché sembra che incominci a piovere.
La tipica precisione svizzera si appalesa quando chiede di regolare subito i conti: l'alloggio, come già concordato, ci costerà 90 franchi svizzeri per dieci giorni, praticamente un franco a testa al giorno.
E finalmente l'andiamo a vedere, questo alloggio: ci accompagna in cantina con una candela tremolante. Apre, con grande fatica, una pesante porta affiancata da due griglie quadrate per l'aerazione, che dà accesso a un breve corridoio, sarà un metro di lunghezza, che finisce con un'altra porta uguale.
Tito, per la luce della candela, ha una faccia giallognola. Johnny strabuzza gli occhi ancor prima di vedere cosa c'è dietro la porta. Finalmente lo gnomo la spalanca e ci si para di fronte il suo rifugio antiatomico, bunker se così lo vogliamo chiamare, elemento abitativo di cui ogni casa "svizzera" deve essere dotata. Come noto infatti in Svizzera vi sono 300.000 rifugi in case, istituti ed ospedali, nonché 5.100 rifugi pubblici per un totale di 8,6 milioni di posti "protetti" pari a un grado di copertura del 114%. E' questo 14% in più che mi fa sorgere preoccupati dubbi sulla sanità mentale della popolazione.
La prima vista, che è del tutto definitiva, è quella di un "closed space" con tre pareti occupate da tre letti a castello, ciascuno con tre cuccette. Se ogni letto avesse un altezza di 60 cm vuol dire che l'altezza totale non è superiore ai due metri. Al centro abbiamo un tavolo col ripiano di formica rossa, come usavano anche in Italia, negli anni '50. A fianco all'ingresso il luogo di decenza, che per decenza non descrivo. Delle sedie ci spiega che non ne avremo alcun bisogno, potendoci sedere sul bordo del letto. I sessanta centimetri con la cuccia sovrastante ci obbligheranno a stare curvi o a sedere sullo spigolo della cuccia. Davvero comodo, non c'è che dire.
C'è un piccolo armadio con le provviste, chiuso da un lucchetto "svizzero". Il cibo non è compreso nell'euro che paghiamo. Però sarei curioso di sapere se c'è la cioccolata.....
Ci viene spiegato che l'illuminazione si può ottenere girando una manovella a ruota che non avevamo ancora visto perché nascosta in una angolo, che ottiene energia elettrica per la lampadina. Ci dimostra infatti che con un paio di girate ben date riusciamo a ottenere che la lampadina si illumini, forse troppo fievolmente. Ho calcolato per tre secondi. Le finestre non ci sono. Quadri appesi non ci sono.
Ovviamente non dovremo starci dentro parecchio, ma sul momento la sola idea di passarci dieci notti mi fa venire in mente che quando sarà il momento al cimitero ci arriveremo perfettamente preparati.
Usciamo e andiamo in paese per programmare la gita di domani e per fare un po' di spesa per la cena di stasera. Di comune accordo decidiamo di mangiare fuori dal bunker, e di usarlo soltanto per dormirvi. Nessuno di noi lo dice ma tutti pensiamo che sia un luogo non solo opprimente ma profondamente tetro. Il budget che ci siamo imposti del resto non ci permetteva di meglio.
All'ufficio turistico parlano solo il tedesco e non dimostrano di avere grande voglia di aiutarci nella programmazione dell'escursione. Solo Johnny ha una qualche dimestichezza con questo idioma, o almeno così lui dice. Chissà cosa avrà capito. Comunque sembra sicuro. Ha detto che bisognerà partire alle 4 per arrivare in loco alle 9. Concordiamo tutti pregustando la partenza: è sempre una bella sensazione.
La cena la facciamo in una specie di giardino pubblico, con le lacrime agli occhi, dopo essere stati pressoché rapinati in un supermercato, perché qui gli hard discount tedeschi non ci sono proprio.....
Alle otto della sera torniamo mestamente all'accampamento del castoro. Ci dovremo stare poco meno di otto ore.
Abbiamo stabilito che in tre quarti d'ora faremo tutte quelle cose che si fanno prima di andare a dormire, per cui alla manovella ci saranno 9 turni da 5 minuti. E poi tutti a nanna. O almeno ci proveremo.
E così tutto è andato come programmato. Ma qui dentro fa caldo.
La sveglia suona alle tre e un quarto. Ricomincia il turno dei cinque minuti di manovella. Alle quattro meno cinque siamo pronti per uscire. Vogliosi di sgranchirci le gambe nel buio della notte che sta facendo largo all'alba.
Tito si avvicina alla porta per uscire. La maniglia non si muove. La ruota con forza ma questa non cede. Allora, con un mezzo sorriso, posa lo zaino che un poco lo ingombrava, e si applica con impegno. Nulla. Sembra saldata. Gli otto che non girano la manovella della luce si guardano con un finto sorriso. “Proviamo a fare leva con qualcosa” propone Fabio. Ma che cosa? Usiamo la picozza. Antonio, il meno magro fra di noi, si fa largo con la picozza in mano. “Datemi una leva e vi solleverò il mondo” esclama con la certezza di chi ce la farà, novello Archimede. Infatti ce la fa, e spezza la picozza in due mozziconi ormai inutilizzabili. Lo smarrimento si fa strada negli sguardi.
Mi slaccio il colletto della camicia.
Herr Von Dänicken!!” mormora Fabio. Incomincia ad avere gli occhi fuori dalla testa. Sono le quattro e un quarto. Siamo già in ritardo, uffa.
Qualcuno suggerisce di provare a cercare intorno alla porta, come se ci fosse un qualche pulsante, un meccanismo che la possa sbloccare. E allora perdiamo dieci minuti in cui ci avvicendiamo a esplorare i dintorni della porta, e chi deve girare la manovella per illuminare lo fa con un impegno prima non immaginabile. Niente. Niente di niente. I minuti passano. Proviamo, con un coltellino “svizzero” anche a smontare la griglia di aerazione (ma quale aerazione??) senza ovviamente riuscirci. Gli elementi sono contro di noi.
Sono le quattro e trentacinque.
Decidiamo di fare un tentativo vocale d'insieme: “Herr Von Dänicken!!!!” gridiamo in coro a squarciagola, più volte. Nessun eco, nessun rimbombo.
Incomincio a pensare che il bunker sia isolato non solo dalle radiazioni atomiche ma anche dalle ben meno pericolose onde acustiche.
Johnny è seduto nell'angolo e singhiozza.
Nessuno di noi riesce a percepire il lato comico della situazione, chissà come mai.....
Alle cinque e un quarto, sprofondati nella paura e nel silenzio, sentiamo un lieve scalpiccio.
Herr Von Dänicken! Herr Von Dänicken!!!!!!!!! Herr Von Dänicken!!!!!!!!!!” gridiamo all'unisono, con la forza del cuore e la voce arrochita dalla paura della tomba.
Sentiamo armeggiare dietro la porta che lentamente si apre. Neanche quando sono giunto in vetta all'Eiger, nella mia gioventù, sono stato così felice. La stessa identica felicità che provò Gesù quando uscì dal Sepolcro, immagino.
Tito soffre di un prurito acuto delle mani, che vorrebbe rudemente strofinare sulla barba del malefico gnomo. “Perché mi avete chiamato? Cosa è successo?” “Non riuscivamo ad aprire la porta, insomma che cazzo di posto è questo?” gli risponde Tito. “A me risulta che funzioni benissimo”. “Bene, allora riproviamo, ma questa volta lei sta dentro e noi tutti fuori”. “Certamente, quale è il problema?”. Usciamo tutti, con il muto desiderio di lasciarlo lì dentro a marcire per l'eternità. Forse in cinque secondi la porta si apre e il mostro si appalesa in tutta la sua cattiveria.
Borbotto qualcosa per scusarci e lentamente usciamo. Sono le sette del mattino e il cielo è plumbeo, un po' come il nostro umore. L'escursione è sfumata.
Senza dircelo ci dirigiamo verso quell'alberghetto che abbiamo visto iersera".


martedì 31 marzo 2015

Serial killer depresso

Iersera, appena arrivato a casa, mi sono accasciato sul divano. Il sabato sera da un po' di tempo è così, certo non perché ho ammazzato uno sconosciuto: semmai questo dovrebbe rendermi euforico. Invece mi sento sulla spalle, sempre più pesante, la fatica di essere vissuto.
Lo specchio mi restituisce immagini di un uomo malconcio, imbrattato di sangue secco dalla testa ai piedi, e non solo nei vestiti.
Mi è scappata persino la voglia di farmi il caffettino del risveglio, dall'ultimo Natale.
Non saprei neanche più direi cosa sia successo ieri: ricordo solo quel bar, squallido oltre ogni dire, e quel giovane cretino che inveiva bestialmente contro una signora. La Mamma, avrebbe potuto essere. Ma la Mamma di chi?
E' uscito un po' barcollante e a me sono bastate solo le mani. “Discreta manus, dura pietate.....”: gli ho frantumato l'osso del collo e l'ho trascinato, flaccido burattino, nel vicolo retrostante. Gli ho fatto uscire gli occhi dalle orbite con uno schiocco, quasi a volergli levare l'anima, e ho incominciato a svuotarlo rapidamente e sistematicamente. Faccio sempre così, anche con i conigli che tengo in campagna. Cioè no, a loro gli occhi li lascio.
Ho abbandonato quella carcassa vicino al suo contenuto, bene in vista. Stamattina guadagnerò le prime pagine dei giornali on line.
Il vero problema è che tutto ciò non mi dà più alcuna emozione. Non ho paura di essere ricercato, non ho piacere a girare per le strade a testa alta. So di essere imprendibile ma questo non mi riempie di orgoglio.
Mi trascino verso la cucina: piatti di carta sporchi e pentole da lavare dappertutto. Perché non trovo questa beata caffettiera? Stanotte avrò dormito sì e no un'ora. Rinuncio al caffè e mi siedo in poltrona. Non ho nessuna voglia di uscire.

Quanto è che sono seduto? Tre ore almeno. Il sole, spostandosi, mi scalda il viso e incomincia ad abbagliarmi. Chiudo gli occhi, ma so bene di avere perso il sonno, anche se nulla potrà farmi alzare.
Non è vero: una torma di uomini vocianti incappucciati è entrata in casa improvvisamente, mi hanno portato via di peso.
Non fa niente.



venerdì 27 febbraio 2015

Villaggio vacanze

Una notte vomitevole, irrespirabile come quel luglio del 2003. Hanno un bel dire che questi cessi di tucùl siano freschi perché hanno la spiaggia vicina, maledetti loro. Caldo, caldo, caldissimi.
Occhi sbarrati. Immagini che passano davanti agli occhi come un vecchio film in bianco e nero, ricordi confusi ma avvolti di tristezza. Non mi posso neanche coricare per terra: scotta. Datemi un'amaca!
Lei, la stronza, sta russando. Mi domando come cazzo faccia: cosa vuol dire avere vent'anni!
Ho quasi voglia di riprendere quella specie di aereo a pedali che ci ha portato qui.

Continua a russare, col seno che si muove ritmicamente nella penombra. Un gran bel seno, non c'è che dire, e pagato profumatamente, del resto. Un seno che ben presto prenderà il volo, quando troverà un altro vecchio che gli paghi più conti di quelli che gioiosamente ho appena finito di saldare io.
Comunque sia questo seno è stato capace di far ricrescere tenerezza e passione, incontrandomi nei giorni della malinconica rassegnazione di averle definitivamente perdute.
Vediamo se sarà anche capace di sbattermi in mezzo a una strada...

Sono le sei e mi alzo. Mi guardo con difficoltà nello specchio madido di umidità e mi domando se ho più voglia di sputare o di abbracciarmi. Domande oziose, senza risposta.
Lei continua a dormire, infantilmente inconsapevole.

(dedicato al Professor Unrat)




Una giornata di Denise

1.
Quella sera Denise aveva un gran mal di testa: l'acquazzone che l'aveva sorpresa in strada aveva anche contribuito ma la causa era soprattutto la pancia, che le gridava di non andare a quell'ultima udienza. Dio solo sa quanto le sarebbe piaciuto potersi dare malata.
Decise di prendere la Novalgina diluendola col Campari. Fu così che in dieci minuti la generosa dose di bitter la aiutò a entrare nel sogno.
"Sto scendendo di buon passo per via della Maddalena, perché voglio andare da M. E' strano che non riesca a ricordarmi il suo nome completo. Sono serena e fiduciosa, perché so che lui mi darà quella carta nautica che mi serve, la stessa che immagino abbiano usato i marinai di Amalfi, aiutandosi per navigare soltanto con le stelle del cielo. Il fatto è che sento prepotente questo bisogno di partire, di tornare in mare aperto, e di vedermi intorno solo acqua.
"Stai tranquilla, Denise", risponde sorridendo alla mia richiesta, "Presto arriverà".
Esco felice, ma non esco del tutto, perché una qualche parte di me rimane ancora in libreria, ad aspettare. E infatti lui arriva: non so chi sia ma ha un'aria familiare. Baffi e capelli brizzolati, un maglione color del vino. La mia ombra resta a bocca aperta quando lo sente chiedere proprio la carta dei marinai di Amalfi, e non meno stupita quando M. gli risponde, con identico tono, "Stai tranquillo. Presto arriverà".
Io, fuori nel vicolo, appoggiata alla facciata di fronte all'ingresso della libreria, sono preoccupata del fatto che costui possa diventare un compagno di navigazione. Mi guardo intorno e non riconosco più via della Maddalena. Non riesco a muovermi però, la mia ombra è ancora dentro e non vuole uscire.
Entra adesso un giovane, e non accompagna la porta, che sbatte rumorosamente. L'ombra lo scruta, tranquilla di non essere vista. E' bello come Adone, e di questa sua bellezza è fieramente consapevole. E gli occhi poi.... dello stesso colore di quel mare che aspetto di attraversare.
Finalmente riesco a ricongiungermi con la mia metà, e incomincio a correre giù, verso la Darsena, infilandomi nei vicoletti che tagliano le lunghe parallele, stretti passaggi in cui le facciate delle vecchie case sembrano baciarsi. Voglio vedere il mare".
Denise si sveglia improvvisamente, alle 3.50, sentendosi addosso l'odore aspro del porto. La televisione è accesa e per qualche minuto prova a seguirla, senza riuscirci.
Se non altro non ha più mal di testa.

2.
Denise va a palazzo di giustizia tutte le mattine con la metropolitana. Sale al capolinea
e la carrozza è deserta, per cui può sedersi sempre allo stesso posto. Cerca di assumere un'espressione che scoraggi ogni approccio ai viaggiatori che saliranno.
Il processo l'ha preparato bene, e le carte sono tutte nella vecchia borsa appoggiata per terra, dietro le sue lunghe gambe.
Vorrebbe rilassarsi, perché ci vogliono tre quarti d'ora per arrivare, ma stamattina non ci riesce: il sogno della libreria le ha lasciato un po' di amaro in bocca e una curiosità profonda. Stringe gli occhi per sforzarsi di riviverlo, con quel desiderio di vagare per un mare senza orizzonte, lasciandosi dietro il passato, per diventare anche lei goccia di un'acqua primordiale.
Questo desiderio di un mare materno la rituffa nel ricordo di quell'altro viaggio, il viaggio di nozze. Posticipato perché Dario era stato male nei mesi del matrimonio, e allora avevano deciso di farla l'anno dopo, la crociera. Avevano viaggiato sul Meltemi, quel clipper inglese che partiva dal porticciolo delle Grazie e arrivava fino a Istanbul. La vacanza più lunga della sua vita, perché dopo non avrebbe mai più potuto prendersi un mese e mezzo intero di ferie.
Una crociera per più aspetti indimenticabile, specie per Dario, che aveva messo definitivamente nel cassetto il suo desiderio di avere un figlio.
Lei ne aveva troppa paura. Ne avrebbero potuto parlare anche per un anno di fila, non solo per sei settimane, ma lei non avrebbe comunque cambiato idea, perché si sentiva senza via d'uscita. E del resto non puoi fare dei ragionamenti contro la paura, specie se sei tu stessa a sentirtela addosso e a non renderti conto di dove venga. Non che lei, nelle intenzioni, non volesse avere un figlio, anzi, in un certo senso le sarebbe piaciuto. Ma ne aveva una paura paralizzante. Di morire, di odiarlo, di partorirlo, di un figlio imperfetto, di non essere capace a crescerlo.
Potremmo dire che aveva una paura simile a quella di un bambino che non vuole buttarsi in braccio alla mamma, perché teme che all'ultimo momento lei si ritiri, e lo faccia morire cadendo.
In quella cabina di legno con l'alcova i loro rapporti divennero sempre più svogliati, e al ritorno a casa cessarono del tutto.
Quando fu il momento Denise capì subito che Dario si era infilato in altrui lenzuola: glielo lesse negli occhi la sera che lui tornò a casa con dieci minuti di anticipo.
E così andò avanti per più di dieci anni, matrimonio di facciata, in cui l'unica cosa a resistere fu una malinconica tenerezza.

3.
Sono seduta al banco degli avvocati, già con la toga distrattamente posata sulle spalle. Sogni e ricordi son riusciti a farmi scendere l'umore sotto i tacchi. Quelli da 12, naturalmente, che per un vezzo uso in tribunale. Non solo le parole portano i giudici dove tu vuoi che vadano, anche due calze nere velate. E due ciglia ben truccate.
Eccolo, il mio cliente, è arrivato, in catene. Gli manca soltanto una corona di spine e l'aspetto è quello di una certa iconografia sacra di quando, da piccoline, ci trascinavano in chiesa, ficcandoci fra le mani colorati santini. Ricordo ancora i nove venerdì del sacro cuore, e i cinque sabati della madonna. Chissà quante indulgenze avrò lucrato, anche se nulla rispetto ai miei peccati. Ma vivendo me ne sono fatta anche una ragione.
Girando oziosamente fra questi pensieri ascolto l'interrogatorio del pm, e le successive richieste di chiarimenti da parte del presidente. Sento, ma non capisco nulla. Questo fior di birbone, recidivo fra l'altro, meriterebbe la flagellazione, se la giustizia esistesse. E invece risponde chiaramente, a tono, con linguaggio preciso e forbito. Deve anche avere studiato, questo pezzo di merda.
E' il mio momento. Mi alza e incomincio l'arringa, che ascolto come se la pronunciasse un'altra da me. Parlo lentamente. Elenco tutti i motivi per cui l'accusa contro il mio cliente è giuridicamente insostenibile. Alzo anche il tono della voce, quando è il momento di farlo. Anche le pause ho studiato. Per essere brava, del resto, sono molto brava.
Mezz'ora di camera di consiglio è stata più che sufficiente. Assoluzione. Ho vinto. Mi alzo per andarmene e gli faccio un cenno come dire "Ti aspetto. Portami i soldi".
Esco, fra i complimenti dei colleghi e con grande voglia di vomitare.

4.
Denise entra in libreria, con l'aria di chi sta cercando un qualche libro in uno scaffale ben preciso. Anselmo è seduto alla sua scrivania, che è un vecchio ceppo da macelleria riadattato all'uso. Alza appena la testa e ha l'impressione che la sua cliente sappia dove andare. Ritorna quindi al libro che ha fra le mani. Non sarà un gran libro, certo, ma gli serve per passare i pomeriggi.
"Scusami, hai per caso una vecchia carta dell'arcipelago delle Ponziane? Ne sto cercando una in particolare, dell'Istituto Idrografico della Regia Marina, del 1790".
Anselmo trasecola per l'insolita richiesta. Poggia il libro, si leva il pince-nez e si liscia il pizzetto con gesto che vorrebbe essere di riflessione. "Mi spiace, signora, ho qualche carta nautica ma non così vecchia: Le ha detto qualcuno che avrebbe potuto trovarla qua?". Intanto la guarda: è sicuramente un avvocato uscito dal palazzo di giustizia, ha un'elegante cartella portadocumenti di pelle nera, la cui sgualcitura rivela grande morbidezza. Che bella donna!
Denise è ancora sconvolta. "Posso sedermi un attimo? Una mattinata difficile....". "Prego, si sieda qui sulla panca, vicina a me. Posso offrirle un caffè? Sa, qui dentro c'è poco più della moka". "Vada per il caffè". "Ah, grazie, mi scusi". "Non si preoccupi".
Anselmo si alza con difficoltà e si ritira in uno sgabuzzino che, nei momenti di entusiasmo, chiama "cucina", ma è solo un buco. Torna dopo tre minuti con la vecchia moka da una tazza, e due tazzine ereditate forse da nonna Speranza.
"Allora? Cosa ha avuto questa mattinata di così terribile?". Denise sorseggia il caffè con troppo zucchero, ma le fa piacere. Sente che di questo sconosciuto, dall'età non immediatamente definibile, si può fidare.
"Ho appena vinto una causa". Lui tace, con gli occhi fissi sul fondo della tazzina. "Una causa che con tutto il cuore avrei voluto perdere. Ma l'ho vinta".
"Questa bravura non sono riuscita a trasferirla nella vita. Mio marito da tanti anni ha un'altra casa, un'altra donna e un figlio che io non ho voluto donargli. E adesso sono rimasta sola, perché alla fine lui ha scelto di vivere con loro. Riempirò le mie giornate di pianto e di insulsi clienti, utili solo per il loro portafogli". Denise si soffia il naso con un fazzoletto rosso, di una tonalità identica al suo rossetto.
Anselmo ascolta, e un velo bagnato gli circonda gli occhi. Gli fa tenerezza questo scricciolo che si mette a nudo davanti a uno sconosciuto, tanta è la pressione che deve sopportare. Aspetta qualche minuto. Vorrebbe abbracciarla, invece le parla senza guardarla. "Avvocato, sta navigando in un tratto di mare particolarmente tempestoso. Tenga stretto il timone e non lo lasci in balia del vento. La bufera finirà. Non rinunci a condurre la sua vita. Provi a pensare che fare l'avvocato può anche essere un modo per aiutare gli umani. Vedrà che giorno dopo giorno il colore del mattino cambierà".
Anselmo si alza e va verso il suo vecchio giradischi. Ha trovato un disco e lo mette su.

".......Vedrai, vedrai,
vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un un bel giorno cambierà.
Vedrai, vedrai,
non sei finita sai
non so dirti come e quando
ma vedrai che cambierà......".








giovedì 26 febbraio 2015

Il carillon

Posto questo brano, non mio ma di Annalisa, compagna di corso dell'Officina Letteraria, che trovo particolarmente bello e delicato.
Il compito era: "Parlate dell'amore".

Anch’io, come Adriano Celentano, non so parlar d’amore e allora vi racconto una storia che parla di un carillon e di un uomo.
A vederlo appoggiato fra mille altre cianfrusaglie su quel banchetto al mercatino delle pulci, il carillon, dopo tutti quegli anni passati di mano in mano, pareva una piccola scatola di legno impolverata che una volta doveva essere stata di un colore più o meno amaranto e con una casa, un albero, il mare e una barca dipinti sulla parte superiore, rami e fiori sugli altri lati. Aveva sul retro una chiave che serviva per accordarlo e davanti una chiusura rotta. Così appariva ai compratori questo piccolo carillon e questo bastò un giorno ad uomo per decidere che quella scatola gli piaceva, che l’avrebbe portata a casa e si sarebbe preso cura di lei. Ma le cose di valore stavano all’interno della scatola. L’uomo l’aveva presa in mano, studiata e aperta e sapeva che dentro era foderata di velluto rosa, che custodiva: 2 chiodi arrugginiti, un gomitolo di lana turchese, un foglio di carta su cui qualcuno aveva scritto qualcosa ma l’inchiostro era diventato illeggibile, 1 zloty, 1 sterlina, 1 spilla di rame smaltato a forma di farfalla e aveva visto la ballerina con tanto di vestitino di tulle bianche che, sollevata con le punte su di una molla, volteggiava sulle note di "Sul Bel Danubio Blu" quando si dava la carica al carillon. Lui le aveva viste queste cose e l’aveva voluta, l’aveva restaurata -ora era come nuova- e le aveva dato un posto d’onore sul tavolino accanto alla poltrona del salotto.
Il tempo passava e l’uomo si dimenticò di ciò che conteneva il carillon, non lo apriva più, lo spolverava e lo lucidava ogni settimana, ma lo lasciava chiuso.
L’uomo era contento della sua bella scatola e la scatola pensava di potersi ritenere fortunata di aver qualcuno che la trattava con il dovuto riguardo. Però, ad essere onesti, questa avvertiva che c’era qualcosa che non andava, in fondo lei era molto più che una semplice scatola, dentro di sé lei aveva un mucchio di cose interessanti da mostrargli, possibile che all’uomo non interessasse nulla?
Fu proprio allora che successe, sì, proprio quel giorno in cui c’era silenzio e c’era il sole, che lui la sollevò dal tavolino e la aprì.
Prese i chiodi e il foglio e li mise da parte, prese la spilla con la farfalla e la indossò, accarezzò il filo di lana, tenne in mano le monete, diede la carica al carillon e la ballerina iniziò a ballare. Quando le note del valzer iniziarono a trascinarsi stanche nell’aria e la ballerine si fermò, lui ripose tutto nella scatola tranne i chiodi e il foglio e la richiuse.

Quello fu il primo giorno in cui il piccolo carillon capì che cosa fosse l’amore.


mercoledì 28 gennaio 2015

"FINCHE' MORTE NON CI SEPARI"

Ho sposato Amalia, “la donna che non sapeva parlare”, che avevo soltanto vent'anni, e credevo di amarla, ad onta di quel suo piccolo difetto. Dopo il primo bacio mi disse, tutta trepidante “Tesoro, meno male che ho usato un dentifricio antitarme!”. Feci finta di niente, pensando di avere sentito male.
Al ritorno dal viaggio di nozze lei disse raggiante a mia madre “Siamo stati in un albergo di una lussuria sconvolgente!”, e la povera donna mi guardò con aria di rassegnata e impotente commiserazione.
E così ogni giorno della nostra breve vita coniugale veniva condito dalle frasi inverosimili di questa donna dal capello rosso e dal profumo pungente, con ben due occhi verdi ma un unico piccolo neurone, vagante in un contenitore per lui troppo ampio. Frasi talora comiche, sempre inopportune. Persino mio padre non venne risparmiato dal suo pericoloso brio, e in una serata fra amici la nuora se ne uscì fuori con un “mio suocero appartiene a una famiglia di alto linciaggio”, poco dopo avere chiesto al cameriere una porzione abbondante di "calci in bocca alla romana".
L'ho uccisa tutt'a un tratto, portandola a visitare il cantiere dove a quel tempo lavoravo, e facendole inopinatamente rovesciare sulla sua bella ma deserta testolina una betoniera piena di “calce a spruzzo”.
Sic transit gloria mundi.

Non molti anni dopo ho conosciuto Lara, graziosa trentenne, e mi sono innamorato del suo bel viso nello spazio di un minuto, sposandola nel volgere di una settimana. Un grazioso nasino appena accennato all'insù, un'ovale degno di Raffaello, un'incarnato che a me ricordava il rosato di certi tramonti d'autunno, silenziosi e raccolti. Non avevo ancora capito che lei fosse “la donna che non sapeva cucinare”.
Non mi stupì molto a quel tempo il fatto che ogni sera lei insistesse per andare al ristorante, anzi la trovavo una richiesta accettabile, tutt'al più leggermente dispendiosa, non un segno premonitore.
E quando finì il viaggio di nozze ricominciò quella vita quotidiana, dalla cui noia lei avrebbe dovuto liberarmi. Attività che le riuscì perfettamente.
Ricordo in ogni particolare la prima sera che tornai a casa dal lavoro, felice, affamato, curioso.
E' difficile mettere la pasta nel piatto con metà della sua acqua di cottura, eppure lei ci riuscì, perché aveva deliberatamente programmato di diluirvi la passata di pomodoro, versandola direttamente dalla latta. Forse avrei preferito una punta di zucchero, ma capii che lei aveva versato un intero cucchiaio di sale in quella che, con azzardata iperbole, chiamò "pummarola". La carne ai ferri per non esser da meno arrivò in tavola nerastra, cosparsa di verdi chiazze di un'erba aromatica resa irriconoscibile con volontà malefica.
Non passò più di un mese, durante il quale sopravvivere fu davvero impegnativo, che una domenica decisi di prepararle un pranzetto io, tre portate, una più entusiasmante dell'altra, di cui lei purtroppo poté apprezzare soltanto la prima, che emanava una tenue fragranza di mandorle amare.

Non sono più un ragazzo ma ho ancora un discreto aspetto. Nel mio vagabondare attraverso l'altra metà del cielo sono incappato in Graziella, di poco più giovane di me. Già da anni la conoscevo e debbo dire che mi è sempre piaciuta, ma incontrandola ogni giorno alla mensa aziendale la guardavo solamente con la coda dell'occhio, senza rendermi conto che lei era proprio “la donna che sapeva fare l'amore”.
Le mie due deludenti esperienze mi hanno dato una certa pericolosa presunzione, per cui una sera ho preso il coraggio a quattro mani e le ho telefonato.
Non mi ha insospettito il fatto che fosse così cordiale, e che mi dicesse di andare subito a bere qualcosa da lei, anzi quella sera ho pensato che la mia stella mi guardasse con benevolenza e mi sono messo in macchina con la camicia di seta color fucsia, non prima di di essere passato in gelateria. Una vaschetta di gelato per due, gusto limone.
Fosse stato per lei non avrebbe neanche chiuso la porta: l'ho fatto io, con un calcio. I bottoni della camicia sono saltati con lieve scoppiettio. Mi ha trascinato nella sua cuccia con la forza di una donna di Neanderthal e mi è saltata addosso, incollando la sua bocca alla mia. E' stato bellissimo quel bacio, anche se non respiravo troppo bene perché lei era a cavalcioni del mio torace. Peccato che proprio quel bacio sia stato il mio ultimo ricordo, perché con quella lingua è riuscita a soffocarmi, tardiva e inconsapevole vendicatrice.
Il gelato se lo è finito da sola.