domenica 29 dicembre 2013

Sfere

E' tornato a casa, finalmente. E' andato via un martedì pomeriggio, lo ricordo bene. Avevo appena suonato le tre. Un pomeriggio qualsiasi. Se ne è andato come al solito, in silenzio.
Poi per quasi una settimana non l'ho più visto. Percepivo negli altri abitanti della casa, in quei giorni, un'agitazione che si propagava nell'aria, e uno svolgere le quotidiane attività con uno spirito diverso, un sentimento di preoccupazione che non avevo mai notato. Loro continuavano ad andare e venire ma lui in quei giorni non c'era. In compenso il telefono squillava continuamente.
Non è molto che sono in questa casa. Sono stata per anni chiusa nella casa di campagna, ferma, una casa buia e fredda, perché priva di umani. Una casa che un tempo d'estate si animava delle voci di amici prima e di bambini poi, voci accompagnate gioiosamente dall'abbaiare dei cani. Il tempo che io segno era anche scandito dai ritmi della vita quotidiana, i pasti, la raccolta della verdura, di certe albicocche di cui ho sentito per lungo tempo le lodi. Poi il tempo è riuscito, con lo stesso procedere della goccia che scava la roccia, a cancellare tutto: solo i ricordi restano incisi nelle mie sfere, anche se a nessuno sono visibili.
Un giorno mi sono venuti a prendere e, con sorpresa e gioia, ho ripreso il mio servizio in un'altra casa, ma con persone a me familiari, e sono stata messa vicino alla camera da letto. Continuo a ricordare le ore che passano, specie di notte, a chi non riesce per tanti motivi a dormire. Nel silenzio, rotto soltanto da piccoli latrati di un cane sognante, batto tre rintocchi a distanza di mezzora l'uno dall'altro, e annuncio che è l'una e mezza. Lui mi carica con regolarità, e cerca di non farmi mai restare ferma, con l'accanimento di colui che ha la superstizione di credere che la sua vita sia legata, appesa forse, al proseguire delle oscillazioni di un pendolo. Ma a me fa piacere ritornare a essere coccolata, e cerco col mio suono di trasmettere non solo un po' di gioia ma anche i ricordi che, come tutti i ricordi, più sono sbiaditi e più diventano dolcissimi.
Non va più a lavorare, il mio padrone.
Non ho ben capito il perché, non riesco a capire le parole che gli umani si dicono. Capisco, interpreto, o forse invento, piccoli segni, atteggiamenti solo accennati, tonalità della voce. Sono soltanto una pendola della seconda metà del secolo scorso, ricordiamocelo, non un computer di ultima generazione. Però sono una pendola intuitiva, e i miei rintocchi, sempre uguali e sempre diversi, segnano un tempo che ha lasciato solchi profondi.
Non va più a lavorare, in questi giorni. Racconta però, e molto volentieri, a chiunque gli si pari contro, di questa nuova avventura che ha avuto, che, lo capisco da come gesticola, ha avuto per lui lo stesso impatto di un assalto a una nave di James Brooke sul praho di Sandokan, attorno a Mompracem. E si infervora, racconta dei suoi compagni di viaggio, fa vedere certi segni che gli sono rimasti sul corpo. Ma a guardarlo negli occhi si capisce che proprio un'avventura non deve essere stata, almeno dal punto di vista della piacevolezza che accompagna ogni avventura. Non lo vedo poi così divertito.
E racconta anche di questi compagni di viaggio, quello che sembrava morto e che una terribile scossa ha fatto rivivere, l'uomo dalla barba bianca, novello Yanez, e quello che aveva mangiato troppo dopo la battaglia, per la contentezza, e che stava morendo nella più stupida delle maniere. Tutti uomini dai capelli bianchi, e anche al mio padrone i capelli, nel giro di una settimana, sono un po' più imbiancati.
Non riesco però a capire se sia felice o disperato. Certo, raccontare una così grande avventura, e averla passata con poche ferite, lo dovrebbe rendere felice, ma la voce è spezzata nell'attesa impotente di un'altra prova, che lui teme, perché non sa se ce la farà.
E così alterna voce e sguardi di contentezza a momenti, magari quando suono quei tre rintocchi a distanza ciascuno di mezzora, in cui annega nella paura. E' persino anche ironico, a momenti, ma si vede bene che lo è solo per scacciare il panico. Non so davvero se questa avventura sia stata davvero divertente, ma c'è stata. Dovrà pur farsene una ragione.
Non va ancora a lavorare, il mio padrone.
Le bestie che sono in casa girano anch'esse con una certa inquietudine. Lui se le prende in braccio e le riempie di baci, ricordando forse quando in braccio teneva un pargoletto bisognoso di tutto, che adesso guida la macchina. Ma le bestie non sono bambini, sono molto più autonome, specie i gatti, per cui dopo due o tre strofinate si divincolano con agilità e scappano.
Non ha voglia di lavorare, il mio padrone.
L'unica cosa che fa volentieri, e lo capisco bene perché glielo leggo negli occhi, è mettersi ai fornelli e giocare ai pentolini. Dopo la sua avventura (adesso ce lo possiamo dire, una "piccola" avventura, condivisa con tanti umani, che forse a lui è andata anche meglio che a tanti altri) è svogliato e gira per casa come un'anima in pena. Non riesce a fare tutte quelle cose che prima dell'avventura gli riuscivano spontanee e facili, e ogni attività gli pesa. Ma non giocare con i pentolini. Ormai lui è capace a dire "ti voglio bene" soltanto cucinando qualcosa per chi gli è vicino, con il massimo dell'impegno. E il massimo dell'impegno significa uscir di casa la mattina per andare al mercato, e cercare con cura gli ingredienti giusti per quella ricetta, con un foglietto in mano fitto di una lista scritta con minuta grafia, non ancora tremolante per fortuna. E tenerlo in mano durante la spesa con la stessa attenzione con cui il navigante guarda la bussola nella notte senza stelle. E' buffo, il mio padrone. Ormai al mercato qualcuno, non tutti, lo riconosce e lo saluta cordialmente, "Come sta, dottore?" "Oddio, passiamo alla prossima domanda". Ma non riesce a trattenersi, e racconta, per la n-esima volta, la sua piccola avventura di fragile umano, ancorché grassottello, e così si guadagna qualche parolina di conforto, che gli fa bene.
Presto dovrà tornare a lavorare, il mio padrone. E io gli segnerò il tempo dell'uscita e del ritorno a casa, e vorrei che i miei rintocchi siano per lui il segno dell'augurio di quella spensieratezza che si è persa lungo la strada degli anni.
Forse io sono più fortunata di lui, vecchia pendola.