mercoledì 31 luglio 2013

CAMBIAMENTI

Mio padre vuole a tutti i costi che vada ad aiutarlo in ristorante, e io non ne ho nessuna voglia. Non ho voglia di andare a scuola, non ho voglia di lavorare. Ho solo voglia di divertirmi, di uscire tutte le sere con i miei amici e di baciare tutte le ragazze che me lo lasciano fare.
Ma mio padre è pesante! Continua a dirmi che non combinerò mai niente di buono. Forse. Ma è certo che non voglio fare la sua fine, chiuso tutto il giorno a sudare fra il caldo di quattro fornelli, sempre arrabbiato.
Iersera è arrivato a casa più nero del solito. Ho sentito dalla mia stanza che parlava a mamma: "In tutto il giorno solo un cliente....", soliti discorsi, che non ce la fa a pagare la cameriera e tutti gli altri conti. Figuriamoci se io voglio fare quella vita! Ho ben altri progetti in testa, io.
Poco fa è venuto da me e, con un tono che non ammetteva repliche, mi ha intimato di andare al ristorante per tutta la prossima settimana, cosicché metterà a riposo forzato la ragazza, e non la paga. Se è per questo non paga nemmeno me. Ma, visti l'espressione e il tono, non ho avuto il coraggio di rispondergli qualcosa di diverso da "Sì".

E adesso sono qui, con la divisa da cameriere dai bottoni dorati, che mi fa ridere solo a vederla appesa alla gruccia, addosso sarà ancora peggio. La devo indossare solo durante il servizio, così non me la sporco.
Entriamo alle otto di questo lunedì mattina autunnale triste e grigio come il mio umore. Si incomincia a lavorare. Devo sbucciare dieci kili di pomodori: so come si fa, ma sono piccoli e sono tanti. Mi ci metto di impegno, se faccio una cosa la voglio fare bene, anche perché non sopporterei che lui mi trovasse qualcosa da ridire. E dopo i pomodori le patate, gli zucchini. Poi pulire i calamari, attività che odio perché ogni tanto ci trovo dentro un pesciolino, residuo dell'ultimo pasto della vita e mi impressiono da morire. Sono freschi però i calamari, papà è andato al mercato del pesce stanotte alle quattro. Questi pesci, cefalopodi dovrei scrivere, hanno un qualcosa di bello e di armonioso che va oltre la loro breve vita.
Papà ha già cominciato a cucinare, con un occhio su di me. E anche io lo osservo di nascosto, sospendendo per qualche attimo la mia attività, e mi rendo conto che non avrebbe mai potuto fare un mestiere diverso. Parla con sé stesso e con il cibo. Lo coccola mentre lo cuoce. Lo vede trasformarsi e ne gioisce. Anche una "semplice" salsa di pomodoro diventa per lui l'occasione per dimostrare il suo impegno e la sua bravura. Nella sua salsa di pomodoro tutto deve essere perfetto, anche il numero delle foglie di basilico. E la assaggia chiudendo gli occhi, cercando di capire, soltanto con gli occhi del cuore, se tutto sia davvero perfetto. In questi momenti sono orgoglioso di lui e del suo ristorante. Meno quando bestemmia a mezza voce e mi tratta come l'ultimo degli imbecilli. Se vuole lo chef sa esprimere un'ironia parecchio sferzante, e riesce con estrema facilità a farmi imbestialire. La cucina avanti a tutto, e immagino anche avanti a me.
Cerco di non pensarci, a questo padre-padrone, e affetto le zucchine cercando di non lasciarci l'unghia e il dito, come l'ultima volta.
Lavorando il tempo passa veloce. E' già arrivata l'ora di mettere i pantaloni neri, le scarpe nere e la giacca con i bottoni dorati. Preparo i tavoli. L'ultima volta che non ho messo il bicchiere del vino al suo giusto posto, cioè davanti alla punta del coltello e spostato un po' a sinistra, mi ha detto di tutto. Inevitabilmente ho imparato, a mie spese. Ma non è cattivo, intendiamoci: ogni tanto mi sento una carezza sul collo e, voltandomi, vedo che ha gli occhi lucidi. Chissà cosa gli frulla, per quel cazzo di testa brizzolata....
Tutto è pronto. La sala è a posto. In cucina la linea è OK. Mancano solo i clienti. Aspetterò quaranta minuti prima che arrivino, i miei primi clienti di questa settimana di passione.
Sono in due, un uomo e una donna. Lui è corpulento, con un'espressione sorridente, lei, più alta di lui, ha un cespuglio di capelli biondi che le incorniciano il viso, da cui spiccano due occhi profondamente neri. Si siedono a un tavolo rotondo, dietro una colonna, vicini al pass. Almeno cento anni in due. Vecchi, semplicemente. Ma sono clienti, e io devo sfoderare con loro il migliore dei miei sorrisi. Per fortuna non è difficile, perché mi trattano con gentilezza e sono simpatici. Gli porto la carta e vado a prendere il vino. Mentre torno con la bottiglia dello champagne in mano, ghiacciato si è raccomandato lui, li trovo abbracciati e, con le bocche saldate, si baciano come se non si vedessero da anni. Pensavo fossero due amici ma non direi proprio. Mi ricordano certi baci che davo a Giovanna l'estate scorsa. Per nulla intimiditi dalla mia presenza continuano a baciarsi con gli occhi chiusi. Che fare? Provo a raschiarmi la voce e allora lui apre un occhio, e si stacca dolcemente. Ma la mano gliela stringe sempre con tale forza che le dita di lei sono sbiancate. Gli faccio assaggiare il Cliquot: "Va bene", mi dice. Meno male, papà dice che spesso il Cliquot sa di tappo. Ma ho come l'impressione che anche se gli avessi servito Champagne marca "cesso" sarebbe andato bene lo stesso.
Prendo la comanda e appena mi volto sono di nuovo abbracciati stretti, si sono avvicinati persino le seggiole. Mi volto per pigliare il macinino del pepe, che non mi serve, e vedo le mani di lui che le accarezzano delicatamente i capelli. Per tutto il pasto sarà più il tempo che dedicheranno ai baci che quello destinato al mangiare.
C'è qualcosa che non riesco a capire. Ma non si vergognano? Fossero due ragazzi come me li capirei, ma sono due vecchi, queste cose non le dovrebbero fare. Certo, il cliente può fare tutto quello che vuole, ovvio. Ma io mi sento in grande imbarazzo.
Loro due invece, con il massimo della naturalezza, continuano a scambiarsi saliva imperterriti.
"Peccato di non avere nel ristorante un divano letto con tre paraventi", mi sorprendo a pensare, trattenendomi dal ridere ma senza riuscirci, intanto che rientro in cucina con i piatti vuoti. Papà, che mi ha letto nel cuore, avvicina l'indice della mano destra alle labbra. Silenzio vuole. Ma sorride anche lui.
Gli porto infine il dessert. E lui le sta baciando la punta del naso. Lei ha un'espressione di felicità assoluta, mi fa pensare che si prenda tutti quei baci e se li conservi nel cuore. Sono felici, e a un tratto non li vedo più come due vecchi ma solo come due persone senza età, che vogliono solo scambiarsi il loro bene nel mio ristorante.
Oddio, sono bastati due sconosciuti e ho detto "il MIO ristorante", anche se è grazie a papà che questo ristorante ha qualcosa di magico.
Non posso lasciar perdere questa magia. Ho cambiato idea. Voglio lavorare qui.
Quando escono, in fretta e furia perché per loro deve essere tardi, la aiuto a infilarsi il cappotto e le mormoro titubante "Vi aspetto presto nel nostro ristorante". E il suo "certamente" è una promessa.




lunedì 29 luglio 2013

OCCHI

Eloise ha trentatré anni. Jacques ne ha tre. Il papà di Jacques non c'è, è solo il ricordo di una notte d'amore.
Non lo conosceva da molto, Enrico, se poi si chiamava davvero così. Giorni. Si erano incontrati una notte in un bar di Marsiglia, subito dietro il porto, quando lei, stravolta dal caldo, era uscita dal turno di notte della reception dell'hotel, e si era concessa una birra prima di tornare a casa.
Aveva sentito la presenza di quell'uomo ancor prima di vederlo, dietro di lei, ed era così stanca che aveva fatto fatica persino a voltarsi. Ma quegli occhi l'avevano stregata.
Non bello, non alto, non elegante, ma con due occhi che ti leggevano l'anima. Italiano, le aveva detto di essere, e lei aveva pensato subito a quei siciliani che gestivano il traffico delle bionde, bionde come i suoi baffi.
Anche se lei non aveva mai avuto difficoltà a trovarsi un uomo, riusciva a vedere in lui qualcosa di diverso, qualcosa che lei stessa non riusciva a capire interamente, qualcosa che l'aveva indotta a volerlo a tutti i costi. Eloise non era certo una donna "facile", né facile era mai stato conquistarla. Eppure, nel volgere del tempo che ci vuole per bere una birra, si era stabilito fra di loro un flusso molto tangibile, anche se poco descrivibile. Desiderio, amore, altro. Lo lasciò quasi subito e tornò a casa col cuore in tumulto.
Il mattino dopo telefonò al suo capo chiedendo di essere messa tutti i giorni a quel turno che finiva a mezzanotte, da nessuno ambìto, e lo ottenne con facilità. Era una donna sola, libera, poteva gestirsi il lavoro e la giornata come meglio credeva. Non gli aveva dato un rendez-vous per quella notte ma sperava che l'avrebbe rivisto. Dentro di sé ne era certa.
Si fece trovare seduta a un tavolino di quel bistrot, che per alcune notti li avrebbe accolti con dolcezza, con un'espressione di attesa che si sentiva addosso ma che non avrebbe voluto mostrare.
Enrico, quella notte, arrivò a mezzanotte e un quarto. Lei era alla seconda birra, e non riuscì a dissimulare il suo desiderio.
Lui cominciò a parlare a bassa voce ma sommessamente, in un francese carico di inflessioni siciliane, e lei, pur ascoltandolo con attenzione e capendo ogni parola, riusciva lo stesso a dissociarsi e a pensare simultaneamente al fremito che avrebbe provato a farsi accarezzare il seno da quelle dita nodose. Ma cosa aveva quest'uomo di così speciale? Eloise non lo capì mai. Lui parlava e lei ascoltava beata, anche se era indubbiamente un uomo logorroico.
Gli prese la mano e gliela strinse. Lui non si mostrò stupito neanche un po' e ricambio la stretta, con forza. Anche quella sera si lasciarono senza darsi un appuntamento.
L'ultima sera che si videro lei non gli lasciò più la mano, e senza dir niente se lo portò a casa. Il desiderio di essere accarezzata da lui era diventato un'idea fissa e, in quel momento, l'unico scopo della sua vita. Non si sbagliava, comunque. Quelle mani grosse, da contadino, ci sapevano fare. E fare l'amore fu come realizzare il sogno della vita.
Alle sette e quaranta del mattino lui la salutò con un bacio silenzioso.

Non pensava che quella notte, in cui era affogata nei suoi occhi, le potesse costare così tanto. Il posto di lavoro, tanto per cominciare. Le donne incinte non possono stare al banco della reception. E l'albergo non era certo disposto a pagarle un lungo periodo senza farla lavorare. La casa, la sua casa, arredata negli anni con tanto affetto, la dovette lasciare, perché l'affitto era in quella situazione insostenibile.
La cosa che le costò di più fu il doversi riavvicinare ai suoi genitori, che aveva bruscamente tagliato tanti anni prima, per crearsi la sua indipendenza.
Per lei fu incredibile essere riaccolta con grande dolcezza, lei e la sua gravidanza. Quando la videro la riabbracciarono in silenzio, e la strinsero entrambi con grande forza. Eloise gli aveva telefonato il giorno prima, spiegando, non senza imbarazzo, la situazione. Le venne anche in mente, lei che era stata educata dalle suore, la parabola del figliuol prodigo. Le chiesero se preferiva stare lì con loro o che le trovassero, e le pagassero, un alloggio, per lei e per il bambino. Eloise si sentì subito così tanto avvolta dal loro amore che, per la prima volta, dalla notizia di essere rimasta incinta, pianse a lungo, sfogando il terrore e l'incertezza di quel cambiamento di vita così radicale. Restò d'accordo con papà e mamma che avrebbero cercato insieme qualcosa, e che sarebbe rimasta con loro fino a quando non l'avrebbero trovato.

Le sembrava che la pancia le crescesse un po' di più ogni giorno, trovandovi sempre qualche cosa di diverso. Volle andare in sala parto da sola, e volle che i genitori restassero a casa. Arrivati a casa, quella mattina di luglio, lesse nei loro occhi una grande felicità. E anche lei, felice e orgogliosa di questa famiglia così delicata, che un tempo ormai lontano non era riuscita a comprendere, pianse di nuovo, per la seconda e ultima volta in quei nove mesi.

Jacques era un nome che le era sempre piaciuto, il nome di Casanova. Aveva trovato, grazie alla mamma, un piccolo lavoro che poteva fare a casa, scrivere sul computer testi autografi di scrittori, o sedicenti scrittori, forse. Così poteva stare vicina a lui.
Non voleva riconoscerlo e distoglieva il pensiero ogni volta che le veniva ma Jacques aveva gli stessi occhi di Enrico, e le stesse mani, in piccolo ma le stesse. Quando lo teneva in braccio, la notte, per farlo riaddormentare, sentiva lo stesso profumo della pelle del padre, e il suo pensiero riandava a quella notte: un sogno a occhi aperti, proprio come le era sembrato in quel momento.
Ma non aveva rancore, non si domandava perché fosse scomparso. In un certo senso pensava che quello fosse il destino che a lei era stato riservato, e contro il destino non si può combattere. Semplicemente lo accettava.

Una sera, Jacques avrà avuto tre anni, Eloise tornò a casa con un puzzle. Da un po' l'aveva adocchiato nel negozio sotto casa, ma c'erano volute tre settimane di risparmi per poterselo comperare. Vi era raffigurato un corsaro, con la benda nera su un occhio, buffamente vestito e con un'aria da gran bonaccione, barba e baffi biondi, occhi azzurri, sullo sfondo di una notte illuminata soltanto dal chiarore della luna piena, circondata da minuscole stelline. Poco credibile come corsaro ma troppo simpatico. Cinquemila pezzi.
Arrivata a casa spiegò a Jacques di cosa si trattava, ma lui continuava a rimirare il disegno sul coperchio della scatola, e diceva "bello, bello".
Gli spiegò che sarebbe venuta una fatina e che avrebbe messo qualche tessera ogni notte, e così nel giro di poco Jacques avrebbe avuto il suo bel corsaro nero appeso al muro della cameretta.
Tre mesi ci impiegò. L'80% delle tessere era nero come certe notti in campagna sanno essere, notti buie d'inverno, silenziose e solitarie. E così furono le sue notti, buie, perché non si poteva tenere la luce accesa ma solo una piccola abat-jour, silenziose e solitarie. Dopo avere finito di scrivere i suoi scartafacci di scrittori illusi da un successo che non verrà, si applicava a cercare le tessere del puzzle, e trovarne una era un piccolo successo. Gli occhi ci lasciò su quel puzzle.

E quando Jacques la mattina trovava qualche tessera in più, e la veniva a chiamare dicendole "Mamma, hai visto che è venuta la fatina del puzzle?" lei era pervasa da una felicità ancora più grande di quella che, in quella notte, le aveva portato Jacques.  


domenica 21 luglio 2013

Finalmente c'era riuscito (2, la vendetta)

Quella balorda ha avuto il coraggio di telefonarmi. Al terzo tentativo ho tirato su, più che altro per non sentire il trillo fastidioso del telefono. Ho cercato di essere molto formale ma non sono certo di esserci riuscito. Mi ha spiegato di una certa scuola, non ho ben capito, sembrava sincera. Per un attimo ho avuto l'idea di dirle che avevo invitato la mia vicina spagnola, ma poi ho lasciato perdere: si sarebbe accorta che era una cattiva bugia, o una bugia cattiva.
Comunque è riuscita a stupirmi: mi ha invitato a cena sabato sera.

Quel cretino faceva il prezioso...., so benissimo che schiatta dalla voglia di rivedermi e invece mi ha detto che aveva un impegno, che provava a disdirlo, che mi avrebbe fatto sapere. Non so neanche io se faccio bene a invitarlo. Uomo interessante, senza dubbio, forse curioso più che interessante. Assolutamente convinto di essere il miglior cuoco della terra: non ci vorrà molto a smontarlo.
Guida come un animale: è incredibile che abbia ancora la patente. Coltiva un look assurdo, fra il poeta maledetto e il gold standard del barbone. Torvo, a volte, dolcissimo se ne ha voglia. Chissà quanti anni potrà avere, sicuramente ne vuole dimostrare di più.
Certo che quando incomincia a raccontare.... ricordo bene quando l'ho conosciuto: era in quella piazzetta di Genova, nel centro storico, quella impregnata dal fumo degli spinelli. Era un giovedì pomeriggio ed ero uscita con Sara per lo shopping. Abbiamo comperato cose carini e inutili fino alle sette e mezza e, se avessimo potuto, saremmo andate avanti fino alle nove. Stremate ci siamo accasciate su scomode seggiole e abbiamo ordinato due Margarita, col lime, naturalmente.
Siamo state subito colpite da quel nostro vicino di tavolino così poco convenzionale, che raccontava al suo amico, con tono stentoreo, i trucchi per preparare l'anatra all'arancia. Siamo persino rimaste silenziose ad ascoltare. Raccontava e godeva, lo si capiva benissimo. E ogni ingrediente veniva analizzato, e ogni dose spiegata. Il suo amico, probabilmente aduso a tali sproloqui, aveva un'aria vagamente rassegnata ma io e Sara eravamo rapite. E l'uomo dalla barba fatta la settimana prima se n'è accorto. E' bastato incrociare gli occhi.
Ci ha chiesto se fossimo interessate anche noi alla cucina, anzi alla Cucina con la maiuscola, come ha detto. E noi a fare di sì con la testa. Allora si è alzato, ha preso due seggiole e ci ha invitato al loro tavolino. Così, è andato il nostro primo incontro. Son tornata a casa alle nove, navigando con una zattera su quel fiume di parole in piena.
Non potrei dire che non mi abbia colpito. Anche Sara se ne è accorta.

Vuole invitarmi a cena, la pazza. Non sa cosa rischia, ah ah. Finirà che ogni piatto che mi farà (ma quanti ne farà??) passerà sotto l'esame del mio occhio più che critico. Non gliene farò passare una, anche dell'olio le chiederò conto.
Non riesco ancora a rendermene ben conto ma credo di essere felice.

Stasera viene, e sono già pentita. Come puoi dare da mangiare a uno che si racconta esperto di cucina? Devo rapidamente inventarmi qualcosa ma la testa è orribilmente svuotata. Due spaghettini al burro col tubetto di concentrato? Perché no, del resto ho come l'idea che non venga per mangiare, ih ih. Ma voglio stupirlo.
Poco a poco si fanno strada nella mente alcune idee..... le tengo lì. Intanto pulisco un po' la casa. Dovrà essere perfetta. Poi la doccia, con quel bagno schiuma un po' oleoso che mi lascia sulla pelle un profumo molto sexy....
Sono le undici, devo andare al mercato a fare la spesa. La doccia mi ha chiarito il menù, non le idee circa il significato di questa cena. Ma per fare la spesa avere chiaro in testa il menù basta e avanza.
E' questo:
- risotto con verdurine fresche, petto di pollo e curry
- arrosto di filetto di maiale farcito all'ananas, con salsa alla senape profumata di pompelmo rosa
- un dolce al cucchiaio che ho già in mente, con le mitiche macine del mulino bianco inzuppate di caffè, e sopra una crema di panna e yoghurt.
Resterà a bocca aperta.

La donna dai capelli a cespuglio, come amo chiamarla nei miei pensieri, starà lavorando per me.... e io sono qui, stravaccato sul divano a cercare di dormire. Ho una voglia di lasciar perdere tutto. Non riesco ad alzarmi. Ho tre ore ancora. Il barbiere può essere una buona idea. La doccia prima o dopo? Dopo, dài. Tanto lo shampoo lo faccio lì. Magari me lo fa quella giovinotta.... adoro farmi fare lo shampoo: chiudo gli occhi e mi lancio in sogni osceni. Vado, vado......

Sono al mercato e ho voglia di scappare. Sarebbe il secondo bidone, lo so, ma mi è scappata ogni voglia. Ho la lista in mano ma giro a vuoto, non sono concentrata. Devo ricordarmi anche il pane e il vino, e per il vino non so dove sbattere la testa. Finirà che andrò in enoteca col menù in mano, a farmi spellare.

Eccomi a casa. Barba e capelli, e anche le mani, per sovrammercato. Mi tuffo nella doccia. E inevitabilmente incomincio a immaginare questa cena. Come sarà questa casa? Avrà un divano comodo? E come apparecchierà la tavola? Classico o informale?
In realtà sono tutti pensieri che ne mascherano uno solo: perché sono mesi che penso a questa donna? Che cosa mi piace in lei? Quelle poche volte che ci siamo visti, in campo neutro, ho cercato di mostrare sempre il mio lato migliore e forse anche lei ha fatto così. Adoro quella sua voglia di parlare, di raccontarsi, di condividere ogni cosa della sua vita. Una compagna ideale per uno che adora fare viaggi in macchina scambiando tre parole col vicino. Uno che in treno cerca gli scompartimenti vuoti. Oddio, se poi uno ha bisogno di me faccio in quattro ma il primo passo mai. Troppo pericoloso. Quelle tre volte che ci siamo visti mi ha fatto sentire accettato. Il problema è che non credo di avere grandi risorse. Certo come compagno di un happy hour penso di essere perfetto, magari anche di una cena, ma poi.....
Cercherò di fare una buona figura, le racconterò del libro che sto leggendo, "L'uomo che amava le donne". Magari riuscirò a farla divertire.


E' tutto pronto. Mi sono fatta un culo spropositato, sono in un bagno di sudore ma è tutto pronto. Il dolce è in frigo. L'arrosto è a intiepidire in forno.
Ho anche già fatto soffriggere la cipolla del risotto, per guadagnare tempo. Gewurtz Traminer, ho scelto, con l'aiuto del negoziante. Non so se mi ha indirizzato su quel vino per il prezzo. Non voglio domandarmelo. La tavola è pronta. Con le tovagliette, quelle con tanti tipi di pasta, mi fanno allegria. Due bicchieri ciascuno. Ma solo la forchetta e il tovagliolo, piegato come mi ha insegnato mia madre. Mancano venti minuti all'ora X. Friggo, come non mi era mai successo. Cosa avrà mai quest'uomo?

E' stato molto bello. Lei, era molto bella. Il bacino che le ho dato entrando mi ha rivelato una pelle morbida e profumata. Mi ha fatto un Negroni, perfettamente, e mi ha offerto certe pizzette con le mele e il gorgonzola. Ci siamo seduti a tavola piacevolmente brilli.
Le ho fatto i complimenti per la tavola. Una cena che anche io non esito a definire perfetta. Il risotto con le verdurine tutte separatamente cotte, un arrostino con un profumo di pompelmo da schiattare e un dolce che mi ha ricordato le colazioni da bambino. Mettiamola così: se cucina tutti i giorni così me la dovrei s. Ma non lo voglio neanche immaginare.
Il dopo cena, con i Queen sullo stereo, è stato rilassante. Ha parlato lei, e le ho fatto capire che a me piace ascoltarla. Entrambi non ci saremmo fermati più di assecondare i nostri piaceri. Tutto lì. Sono uscito felice, dimenticandomi che mi sarebbe piaciuto che si fosse abbandonata nelle mie braccia, che era un po' l'idea con cui sono entrato in quella casa.

E' uscito. Non volevo chiudergli la porta.
Stasera l'aspetto era certo meglio del solito. Aveva fatto anche la barba. Dargli un bacino quando è entrato in casa mi ha scatenato un brivido che ho sentito fino al quinto dito del piede. Tutto è andato molto bene. Dopo cena mi ha ascoltato con desiderio, guardandomi sempre fissa negli occhi, con quei suoi due occhi ingranditi dagli occhiali da presbite. Veramente qualche volta l'ho beccato con gli occhi sul decolletè, generosamente esposto. Ma li ha tirati subito su. Mi piace parlare, ho tante cose da dire. Mi piace avere un uomo davanti che mostra di ascoltarmi con grande tenerezza. Mi piace quest'uomo. Emette qualcosa di nuovo e di dolce. Perché non gli ho detto di fermarsi a dormire?


Mi ha appena mandato un messaggino ringraziandomi. Mi invita sabato prossimo.......... SONO FELICE.






domenica 14 luglio 2013

Foche

Sei solo in casa in una giornata estiva che sta ricominciando a farsi rovente dopo la pioggia liberatoria della notte e del mattino, che ti hanno comunque permesso di svegliarti (tardi, oggi è festa) non immerso nel solito bagno di sudore. Ecco perché ti alzi momentaneamente separato dal tuo solito schifoso umore.
Hai voglia di qualcosa di nuovo ma non sai ancora bene cosa. Un po' ti senti solo, son tutti in vacanza, la famiglia, gli amici. Un po' stai bene: il telefonino non squilla ancora.
Decidi che incominciare bene la giornata significa farsi il caffè alla turca, del resto è tanto che non lo fai. E' anche il segno che nella tua vita puoi prenderti una pausa, per fare qualcosa a cui tieni. Ti vai a cercare anche quel bollitore che hai comperato ad hoc ma non riesci a trovarlo. Reprimi la prima maledizione della giornata e ti imponi di farne a meno, ma non sarà perfetto.
E' vero, cerchi la perfezione in tutto e in quasi tutto quello che fai riesci a trovare un piccolo neo: ma in genere sei l'unico che se ne accorge. Ti salta anche in testa l'idea di invitare a bere il tuo caffè la vicina del piano di sotto, Encarnation, ti ha detto che si chiama, una spagnola. Ti ha suonato l'altra sera per presentarsi e ti ha lasciato piuttosto impressionato: un cespuglio di capelli scuri tenuto fermo da una pinza, e un sorriso parecchio intrigante, sexy, diciamolo pure. Ha un'irrefrenabile voglia di parlare, l'hai capito subito, e a te, quei cinque minuti, è piaciuto molto ascoltarla. Ti ha detto che canta e avresti voglia di sentirla. Magari la accompagni al pianoforte.
Ma lasci perdere tutto: hai un aspetto che ti fa paura: ti tieni l'opzione per un altro momento.

Anche perché nella mia vita c'è una novità! E mi ritorna in mente improvvisamente....Sì, un nuovo amore all'orizzonte, ma non è così o forse in un certo senso è anche così. Nella mia vita c'è una foca. Una fochina cicciottella, coi suo baffetti ed il bel musino che spunta dall'acqua. Non sono impazzito; è una foca che nuota all'acquario di Genova, in una delle tante vasche che i visitatori possono ammirare durante la visita. E io l'ho adottata! Si, ho deciso di adottare una 'fochina' dell'acquario di Genova... situazione originale, certo, ma ogni tanto è bello uscire dagli schemi che la vita ci impone.
A comperarsi un cane, un gatto od un pesce rosso sono tutti capaci, ma chi potrebbe dire di avere una foca? Io si! Ogni tanto mi collego col sito dell'acquario e posso vedere le sue foto, ora in una posa, ora nell'altra, e fa le capriole felice nella sua vasca, con il suo musino delizioso e buffo.
A volte quando sento pungente il bisogno di vederla, vado all'acquario a trovarla: e lei nuota felice, quasi fosse in grado di riconoscermi fra le tante persone che la osservano ammirate. Si potrebbe anche azzardare che ci capiamo al volo!
E così adesso, mentre sono solo nella mia casa, non mi sento affatto solo, perché penso a lei che nuota felice di avermi incontrato.

Così è la vita!