domenica 26 maggio 2013

FARSI DEI FILM


Un attimo prima che attraversiamo la Ulica Nowy Swiat, nell'attesa del semaforo verde, lo vedo, con gli occhi del volto e con quelli del cuore.
Non avrà 50 anni, ne sono sicuro, ma ne dimostra molti di più. Ha un'aria stanca.
Anche se oggi è freddo porta solo un impermeabile sfoderato che una volta doveva essere bianco, adesso è grigio, con un alone più scuro attorno al colletto. La barba non se la farà da almeno due giorni, nera, e contrasta sgradevolmente con il pallore dell'incarnato. Il naso è importante, quasi dantesco, gli occhi semichiusi, volti a pensare qualcosa che non può condividere con nessuno. Non ha quasi più capelli.
Non ostante abbia una borsa che da noi si associa alla figura del medico sicuramente non sta andando a fare una visita: ha un'aria soltanto smarrita e addolorata.
Forse ha perso un malato...

Un attimo prima giravo senza meta cercando qualcosa, sotto questa fredda pioggia polacca, che trasmette un'intrigante malinconia. Ebbene l'ho trovato. Non ho impacci, l'ombrello l'ho lasciato in albergo, in un impeto di ottimismo un po' napoletano.
Voglio capire se è davvero medico. Voglio seguirlo, pedinarlo. Qualche volta l'ho seguita una persona, ma a quel tempo era soltanto una ragazza con un viso splendido, che mi aveva rapito sull'autobus. Adesso la cosa è più seria. E l'età più avanzata. Non posso permettermi di farmene accorgere, non avrei una buona giustificazione.
Uno spruzzo di una pozzanghera schiacciata da una automobile che corre - chissà, forse gli hanno telefonato che è nato suo figlio - battezza in un certo senso questa mia decisione. E l'acqua fredda mi arriva fino all'alluce.

Trascorro dieci minuti a inseguirlo discretamente, o almeno così vorrei. Gli uomini di Varsavia hanno il passo "largo". Si ferma a un portone nero e suona il citofono. C'è una panchina lì vicino e mi siedo, vorrei con noncuranza. Forse l'inseguimento è già finito. Mi sento a disagio, come se ogni persona che passa affrettata sotto questa pioggia opprimente, capisse che io sono lì per lui. Non so dove mettere le mani. Fumo, come sempre. L'umido mi penetra nel collo che gradualmente si irrigidisce fino a diventare duro come il legno. Se mi potessi guardare allo specchio vedrei un uomo col collo storto.
Finalmente esce, il disgraziato. Sotto il braccio che non sostiene la cartella porta un grosso involto di carta di giornale. Non riesco a immaginare cosa possa essere, e mi incuriosisce sempre di più.
Adesso il passo è più veloce, per fortuna. Si inoltra in una viuzza stretta, ulica Warecka, mi sembra che si chiami. Devo tenerla a mente, potrei averne bisogno. Sbuchiamo in una piazzetta interna e lo vedo entrare in un bar. Lo seguo dopo dieci minuti.
E' molto bello, qui.
E' un bar ma è anche un cinema, con pareti ricoperte di poster di film famosi che in parte riconosco anche se il titolo è incomprensibile. Tavolini e divanetti sono disposti con garbo, bianchi. Essendo completamente fradicio mi sembra una buona idea sedermi e prendere qualcosa. Del resto è entrato qui, posso ben aspettarlo, anche se non lo vedo.

Mi dedico al mio sport preferito: guardarmi intorno.
Arriva, non proprio subito, un camerieretto. Avrà sedici anni e i capelli biondissimi. Ha un'aria un po' compunta. Marek, ho sentito che lo chiamavano i colleghi. Mi chiede cosa voglio, in polacco naturalmente. Faccio finta di essere un inglese e gli ordino una birra. Non mi viene in mente nient'altro da ordinare, o almeno il corrispettivo inglese. E' furbo il ragazzo: capisce al volo che non sono inglese. Portami questa birra, dai, senza starci troppo a pensare!

Tre tavoli avanti a me ci sono due donne, due amiche immagino. Mature è la parola gentile che mi viene in mente per definirle. Parlano davanti a due tazze, tè o cioccolata. Una delle due ha un vestitino color nocciola a pois bianchi, un filo di perle al collo, due orecchini pendenti. Porta la vera. Una pettinatura bionda a caschetto. un naso con un bel profilo. La sua amica ha un'aria un po'paesana, certo meno raffinata. Parlano animatamente.
E' arrivata la birra, e finalmente e me la assaporo a piccoli sorsi. E' buona la birra, qui. Queste due donne mi incuriosiscono davvero, ma non capisco un accidenti di quello che dicono. Sembra che la più anziana, quella con i capelli bianchi, consigli, o comandi, alla più giovane di non fare qualcosa. In effetti ha un'aria piuttosto vissuta. Un nuovo amore, forse. Ecco, sì, la biondina racconta all'altra di questo suo nuovo amore, un diplomatico greco di passaggio in Polonia, che lei ha conosciuto durante un'incontro ufficiale all'ambasciata greca di Varsavia, e dopo cinque minuti di conversazione lei aveva già una voglia insopprimibile di baciarlo. La sera poi si sono rivisti in un piccolo ristorante e si sono raccontati le vite fra il primo e il secondo piatto. Non vite brevi, anzi. Semmai spiccate capacità di sintesi. E adesso lei ha chiesto consiglio alla sua migliore amica, perché lui le ha proposto di lasciare tutto e di scappare in Grecia.
Infatti è un po' perplessa, la sua amica, e manifesta questa sua perplessità con una mimica molto facilmente comprensibile. Forse le consiglierà di non lasciare il vecchio marito ormai malandato. Ma lei, con un ciuffo ribelle che le cade sul viso continua imperterrita nell'esternare l'intenzione di scappare. Per sempre. Hanno un minuto di silenzio. Sembra che entrambe raccolgano le idee. Anche io. Poi, con mia somma sorpresa, i loro volti si avvicinano e le mie due nuove amiche si baciano, in maniera appassionata e indiscutibile. Un lungo bacio che, devo dire, mi stupisce e mi intriga. Si fermano soltanto quando realizzano che le sto fissando, ed entrambe mi tirano un'occhiataccia, come se volessi ficcanasare nel loro privato.

Distolgo lo sguardo, allora, per non rischiare serie conseguenze. Anche io devo raccogliere le idee: chi l'avrebbe detto, come potevo capirlo. L'ostacolo della lingua diventa un trampolino di lancio per una fantasia perversa.

Nel frattempo, senza che me ne accorgessi tanto ero assorto, è entrato nel bar un gruppo di ragazzi, che a poco a poco incominciano, dopo la prima wodka, ad alzare il tono della voce. E' un felice brusìo, voce di gioventù serena. Mi infastidisce piacevolmente. Avvicinano parecchi tavoli a farne uno solo e si siedono tutti intorno.
Ordino un'altra birretta al mio piccolo amico, che poi non sono birrette, te ne portano mezzo litro per volta.
Mi stordirò dolcemente. Che cantonata ho preso con le due lesbiche!!! Un po' mi vien da ridere. Ma magari qualcosa ci avevo acchiappato, bastava cambiare il sesso di un personaggio e tutto sarebbe anche tornato. Compresa la riappacificazione finale.

A un tratto, anche se immerso nelle mie riflessioni, mi rendo conto che le luci si spengono, e il locale resta illuminato soltanto dalla luce proveniente dall'esterno. I ragazzi si sono zittiti improvvisamente e anche gli altri clienti sono incuriositi.
Si apre una porta ed entra...... ma è lui! Il mio medico triste! Ma non è un medico, è un cuoco, molto orgoglioso di portare un vassoio con uno splendido tacchino farcito alla moda americana, tutto punzecchiato di stelline scintillanti. Ecco cosa aveva dentro il giornale!
Ma guarda! Ma chi l'avrebbe mai detto! Adesso ha un'aria molto goduta nel sostenere la sua creazione, decorata con tante bandierine americane. Si è anche fatto la barba. Quando le luci si sono accese posa il tacchino al centro del tavolo e incomincia a sporzionarlo, e a servirlo nei piattini di carta agli astanti. Al termine, dato che ne ha consumato molto poco, si volta e il suo sguardo incrocia il mio. Mi porge con un gesto cortese un piattino, che io non rifiuterò certamente.
Grazie, sconosciuto cuoco polacco. Se solo sapessi il film che mi ero fatto su di te il tacchino me lo metteresti per cappello. Ti faccio il migliore dei miei sorrisi. E mangio.

Varsavia, 25 maggio 2013




martedì 14 maggio 2013

VECCHI


Era parecchio che non ci andava. Ettore si era tenuto quel piccolo desiderio per troppo tempo.
Un giro al Luna Park. Solo un semplice giro al Luna Park. A Pescara non era come a Roma, dove il Luna Park dell'EUR è permanente. A Pescara viene una volta all'anno, da inizio dicembre a più o meno metà gennaio.
Ogni anno si riprometteva di tornarci e ogni anno, quasi sempre per ottimi motivi, certo, si ritrovava al 10 gennaio sapendo che il Luna Park non avrebbe finito la settimana. E gli restava un discreto amaro in bocca. Sapore dell'infanzia, ma mica solo dell'infanzia.
Ricordava bene le numerose volte che c'era andato con papà. Solo un po' più grandicello si era accorto che anche a papà piaceva salire sulle attrazioni o parteciparvi, e che lo faceva non soltanto per accompagnarlo.
E mentre da piccolino quella presenza a fianco era lo sprone ad impegnarsi allo spasimo, ad esempio nel tiro all'orso con il fucile – orso che più che altro muggiva – pochi anni dopo l'averlo vicino lo riempiva di orgoglio.
Non ci sarebbero voluti tanti anni che quella presenza sarebbe diventata fastidiosa, sostituita, ma solo per l'adolescenza, dagli amici. Ricordava Ettore, molto distintamente, anche quel biglietto da 10, abilmente sfilato dal portafogli di papà, per pagarsi il Luna Park, andandoci quando e con chi avrebbe voluto lui. Aveva quindici stupidi anni.
Intanto la ruota girava del tutto inesorabilmente ed Ettore si era ritrovato in un batter d'occhi con i suoi, di figli, a recitare la stessa parte, per la quale si sentiva del tutto inadeguato. Motivo per cui, anche se non poteva sapere cosa avrebbero pensato i bambini, si adattò a farla, nello stesso modo in cui immaginava l'avesse recitata papà.
E il tiro all'orso mugghiante continuava a essere lì, gettonato specialmente da Robertino, che voleva continuamente gareggiare con lui. Lo metteva in piedi sul bancone e lo aiutava a sostenere il fucile, più lungo di lui. La bambina preferiva tirare le palline nella vaschetta dei pesciolini rossi, e non riuscendo a centrare il piccolo buco, si finiva inevitabilmente, per non farla lacrimare, col pesciolino rosso in mano, acquistato, non vinto, che mai era durato fino a Carnevale, anche quando la Pasqua era bassa.
Queste cose pensava Ettore dentro di sé.
E poi gli anni erano passati, i bambini cresciuti.
A lui era rimasta questa specie di voglia, di divertirsi in maniera spensierata al Luna Park, o almeno di far finta di divertirsi, ma se non altro farlo bene.
Il problema è che non puoi essere spensierato se i pensieri ce l'hai, specie se sono svariati. E fra l'altro non puoi farti un giro al Luna Park e andare sull'autoscontro da solo, non puoi scontrare i ragazzi. Nella migliore delle ipotesi ti prendono per un vecchio rimbecillito, nella peggiore per un maniaco. E non hai nessun bisogno di fare quattro chiacchiere in questura.

Nello stradone che porta al Luna Park, dopo una cert'ora, c'è la possibilità di avere compagnia a pagamento. Il sabato sera, anche dopo quell'ora, le attrazioni continuano a funzionare.
Irina, si chiama la ragazza. Con la minigonna anche la settimana prima di Natale. Mi fa malinconia e basta. Non suscita ancora altre reazioni. Concordiamo un compenso orario, ora in cui lei farà tutto quello che voglio io. Tre ore possono essere un buon inizio, per non stare solo. Dopo avere ricevuto il permesso del cosiddetto fidanzato torna da me e me la prendo sottobraccio. Avremo dieci minuti di cammino, dieci minuti per conoscerci.
E' rumena. Cerco di farla un po' raccontare, mi piace ascoltare i racconti. Ma ha una certa difficoltà con la lingua, no, non in quel senso lì. Con la lingua italiana.
Con l'intenzione maligna di farla spaventare la prima giostra che le propongo è l'otto volante, giro che lei sostiene con grande naturalezza, anzi, ne vorrebbe un secondo. E' per me che sarebbe troppo.
Entriamo allora in quella attrazione dove c'è un percorso da fare al buio, a piedi, con improvvise luci e rumori, e fili pendenti dal soffitto, e scheletri che compaiono all'improvviso, e spifferi gelidi. Dammi la mano Irina, e gliela prendo. Tutto devi fare, tutto quello che voglio. Si diverte la ragazza, forse non ha neanche vent'anni. E più lei si diverte e più io mi immusonisco, perché non riesco a divertirmi come vorrei.
Provo a trascinarla dal sempiterno tiro all'orso, forse è davvero lo stesso padrone di quando ero bambino. E sfoggio la mia abilità. 20 su 20, e poi 40 su 40. Grande Ettore. Batte le mani e ride divertita, mi dà persino un bacino sulla punta del naso. Sbaglio, e so il perché, ma le chiedo di provare anche lei. E la aiuto a sostenere il fucile, come facevo con Robertino, cosicché la posso abbracciare. Ma non ne azzecca uno. Ci viene regalato il mitico peluche, visti i denari spesi.
Irina, lo vorresti un krapfen? Quei bei krapfen il cui olio di frittura viene gelosamente tramandato da un anno all'altro? Perché no? Tre morsi, dicansi tre. La ragazza ha appetito, del resto le cosce non sono propriamente magre.
La imbarco infine in quella giostra costituita da piccole carrozze che girano in tondo, Avalanche express mi pare che si chiami, e durante il giro a un certo punto le vetture vengono ricoperte da un tendone che porta il buio. Tipica giostra da innamorati, è per questo che ci sono voluto salire.
Si diverte come una pazza, e la forza centrifuga me la spinge addosso. Approfitto del buio e le do un bacio, su una bocca in cui il sapore del krapfen e il profumo del rossetto di bassa qualità si mescolano. Tutto posso fare, ricordatelo. Mi restituisce il bacio con grande impegno. E' tenera Irina.
E' passata un'ora, la voglia di Luna Park me la sono levata. La riporto dal fidanzato.
Ho voglia di abbracciarla e lo faccio, stringendola con tutte le mie forze.
Domani è il mio ultimo giorno di lavoro.




lunedì 13 maggio 2013

Bottiglioni


La psichiatria, dopo un periodo in cui era "di moda" andare dallo "strizza", è approdata in televisione, e lì affascinanti attori/psichiatri ricevono altrettanto affascinanti attori/pazienti, in sedute altamente inverosimili.
Glamour è la parola d'ordine: tutto deve essere glamour, compresa l'umana sofferenza che di suo non lo è granché.
Che si provino, i grandi cineasti, a filmare una visita in un ambulatorio del servizio di igiene mentale dove vado tre mattine alla settimana. Di glamour non c'è traccia; forse, a guardare con occhio smaliziato e corrosivo, l'unico spettacolo che viene in mente è il circo, non solo per la varietà che si presenta all'osservatore ma soprattutto per la malinconia che traspare, come un alone di fondo, in ogni "numero" presentato.
E lo psichiatra a cui passa davanti agli occhi questo film di miseria e di tristezza deve innanzitutto fare i conti con il senso di assoluta frustrazione che quegli incontri gli procurano.
E non c'è stipendio, o onorario professionale, che possano ripagare il sentirsi sgradevolmente impotente. L'errore che fa il mondo è pensare che lo psichiatra lavori per il denaro. Probabilmente lavora soltanto per punirsi.

L'altra sera ero di turno per l'ospedale. Una serata estiva, con l'aria ancora densa del caldo della giornata; serata in cui fai l'andirivieni fra il soggiorno e il bagno per rinfrescarti, perché sei in un bagno di sudore ineliminabile, e non respiri neanche bene, a volerla dire tutta. Davanti alla televisione le immagini si sfuocano e si mescolano con quelle che hai dentro. Ti mancano i tuoi bambini. Avresti voglia di sentire le loro grida, anche se le zittisci sempre. Volti di uomini, del passato e del presente. Ti accendi la tua sigaretta per tenerti sveglia: non sia mai che chiamino dall'ospedale e tu stai dormendo: non lo sopporteresti il casino che ne verrebbe fuori.
Due boccate e inizi a russare, perché hai il naso chiuso da morire. La sigaretta ti cade in grembo e ti bruci una coscia. Altro giro in bagno, bestemmiando per l'ustione. Questa volta sotto il rubinetto ci metti tutta la testa, col tuo cespuglio di capelli che ti ostini a considerare radi, anche se sai che a lui piacciono. L'acqua fredda ti dà un barlume di lucidità e riconosci quel volto allo specchio, quelle belle labbra, e in un flash ricordi gli uomini che le hanno baciate, volti che ricordi con grande precisione, nei lineamenti e nel carattere, e ti sovviene anche l'ultimo, che non vuoi ancora baciare.
Il naso continua ad essere completamente tappato: è la maccaia.
Quasi quasi ti piacerebbe che il telefono squillasse: anche se sei una donna ti stai davvero rompendo i coglioni, in questa serata irrespirabile di luglio.
L'angelo custode dei giovani psichiatri, maligno come sanno esserlo soltanto certi tumori, esaudisce nel giro di tre minuti la richiesta del tuo inconscio.
"Ciao Paolina, sono Salvatore. Abbiamo bisogno di te. C'è il solito barbone strafatto che fa casino. Vieni e dammi una mano perché ho solo due alternative: o la dose di serenase buona per una giraffa o lo butto dalla finestra direttamente, anche se siamo solo al pianterreno". Salvatore scherza sempre, è un ottimo diagnosta ma con i pazienti è negato. L'anatomopatologo dovrebbe fare. Cadaveri e vetrini. Vetrini e cadaveri. "Dammi il tempo di vestirmi. Cinque minuti".
Mentre mi infilo i pantaloni mi ricordo che ultimamente lo scooter fa i capricci: ci mancherebbe anche questa. Eventualmente chiamerò un taxi.
Salvatore mi abbraccia quando arrivo. E' proprio un bravo ragazzo e ha avuto sempre, come ancora adesso leggo nei suoi occhi, un desiderio di me molto evidente, evidente non solo per uno psichiatra con un po' di esperienza ma anche per tutti quelli che gravitano intorno al pronto soccorso. Le nostre strade però non si sono mai incrociate. "Vai nel box 3, il toro scatenato è tutto per te". "Dammi un camice". "Eccolo". Mi avvio senza paura, aspettandomi un energumeno. Non voglio pensare a Sara, che qualche anno fa in una situazione come questa si è buscata un coltellata.
Apro la porta scorrevole e cerco di capire rapidamente cosa succede e chi ho di fronte. La magrezza mi colpisce subito, più di tutto il resto. L'espressione è torva, mi sembra incazzato come una vipera. "Buonasera, sono la Dottoressa Zoppi". Come se non avesse parlato nessuno. Va avanti e indietro come una fiera in gabbia. E borbotta fra sé e sé. Mi arriva uno sbuffo alcoolico nauseante: deve avere fatto un bel pieno. Continua a fare come se non ci fossi. Sergio, si chiama. Ha 45 anni ma li porta da schifo. Sulla camicia, piena di macchie, ha un giubbotto jeans logoro. I pantaloni li sta perdendo: è già arrivato all'ultimo buco della cintura.
Devo assolutamente catturare la sua attenzione, altrimenti non se ne esce.
"Sieda un attimo, ci fumiamo una sigaretta" gli dico offrendogli il pacchetto delle Marlboro. Buona mossa, si siede al mio fianco, con un po' di difficoltà perché l'equilibrio è quello che è. Più che fumare succhia avidamente, e la sigaretta se ne va in una boccata. Gli metto il pacchetto davanti. Il contatto c'è stato.
"Sente delle voci?". "Sì, la sua".
Mi hanno insegnato che la domanda è stupida ma fino a un certo punto: la risposta ti permette di avere un'idea della lucidità del tuo interlocutore.
Mi chiede, con un gesto cortese, di potersi servire liberamente delle Marlboro. "Fai pure" è il senso del mio gesto di risposta.
Per un attimo i nostri occhi si incrociano: nei suoi leggo miseria, solitudine, tristezza infinita. Chissà lui cosa legge nei miei.
La mia diagnosi è che Sergio avrebbe soltanto bisogno di essere abbracciato da qualcuno. Qualcuno che non c'è. L'unico abbraccio che può permettersi, a buon mercato, è quello col bottiglione di vino. E più bevi e più dimentichi il bisogno di essere abbracciato.
"Le metto su una flebo di vitamina: vedrà che si sentirà meglio in pochi minuti". Spenge la sigaretta, mogio, e si allunga sul lettino senza rimostranze: si vede che si sente veramente male. A essere sincera nella flebo ci metto anche qualcos'altro, solo per farlo sentire un po' meglio.
"Stia tranquillo, fra cinque minuti di orologio son qui da lei". Non mi risponde ma ha capito. Gli appoggio la mia mano sulla sua e gliela stringo leggermente.

Utilizzo quei cinque minuti per telefonare alla signora che ha chiamato il 118, impaurita dalle escandescenze, più violente del solito, del vicino di casa.
Mille volte ho sentito questa storia, declinata nelle sue più varie accezioni ma sempre tragica, e mai mi ci sono abituata. Mamma e figlio da soli, chiusi in un cerchio magico cui contribuisce anche la misera pensione di lei, con i bisogni ridotti all'essenziale, in una relazione che esclude ogni altra persona. E quando la mamma muore il cerchio si spezza, il vuoto non è colmabile e il vino e le sigarette riempiono, come possono, giornate tutte uguali, e diventano i tuoi principali interlocutori. Ti bastano solo la poltrona e la televisione.
Cosa cazzo può fare un semplice psichiatra? Niente, solo fargli passare una notte più tranquilla del solito. Oltre ovviamente a restare con l'ennesimo amaro in bocca, per non essere stato in grado di fare qualcosa per Sergio. E' per questo che adesso mi sento uno schifo, non per i vestiti appiccicati addosso.
Ogni giorno che passa sono certa di avere sbagliato mestiere, anche se non saprei immaginarmi di farne un altro.
Vado da Sergio. La flebo lo ha tranquillizzato. Il respiro è superficiale. Deve essere stato anche un bel giovanotto. Trattengo a fatica il desiderio, forte, di dargli un bacio, anche se è sporco e puzza.
Vado a scrivere il referto della visita psichiatrica di pronto soccorso, mi levo il camice e me ne vado, più triste e più dubbiosa di ieri.