sabato 2 marzo 2013

Incontri


Lui
Domattina parto presto. Posso parcheggiare la macchina nel piazzale della funivia alle otto e mezza. Due giorni interi di vacanza me li meritavo. Salgo su al rifugio Torino e mi godo una giornata di ozio produttivo e di sole, sempre che ce ne sia. La domenica prima di Natale non sarà poi così affollato. Mi porto il computer, ho sempre un'enormità di cosa da mettere in ordine: non a caso i francesi, che la sanno lunga, chiamano il computer "l'ordinateur".
Passo un attimo a casa e accendo il riscaldamento, è tanto che è chiusa. Oddio, casa è una parola un po' troppo ottimistica: è una stanza serviziata, con un lettone che viene giù da una parete e un angolo cottura molto ben fornito, come la dispensa. E' il mio scannatoio. Stamattina ha solo bisogno di essere messo un po' in ordine. Se stasera non tornassi da solo non voglio fare la solita figura da barbone.

Lei
Sta finendo la settimana bianca. Sono venuta col gruppo sci della banca. Settimana più che organizzata, vorrei dire regolamentata fin nei più minimi particolari. Sciamo sul Bianco e dormiamo a Courmayeur, in un quattro stelle molto ben camuffato da due stelle, con un vitto orribile, che ha vieppiù scombinato il mio già martoriato colon. Ho bisogno di una minestra vera. E poi non c'è il bidet.

Lui
Salendo al rifugio il cuore mi batte sempre. Riconosco il personale e ho la presunzione di venirne riconosciuto. Ho un tavolo, il "mio" tavolo, a un angolo della sala, e mi permette di vedere tutti quelli che entrano. Le mie cose più belle le ho scritte qui, ispirato dalle facce degli avventori-sciatori, aitanti giovani brufolosi, mamme sfiorite da plastiche mal riuscite, ometti rampanti che in ogni momento della vita devono dimostrare qualcosa: la loro insipienza.
Io me ne sto qui tranquillo, col quaderno davanti, la mia Pelikan e la vita che mi scorre davanti agli occhi. Ho buttato via tante cose fra quelle che ho scritto ma nessuna di quelle che ho scritto qui, in questo angolo di paradiso.
Qui la cucina del mio ristorante diventa un nebbioso ricordo.

Lei
Stamattina ho lasciato andare via tutti, ho dormito un'ora di più. Con studiata tranquillità mi riempio il vassoio del breakfast, scegliendo con cura da quel poco che è rimasto dopo il passaggio della mandria delle sette e mezza. Restano un paio di yoghurt, che nell'etichetta si vendono come prodotti con latte delle mucche valdostane. Penso che se le mucche fossero uzbeke non sarei in grado di accorgermene. Mi aiuteranno lo stesso a svuotarmi.
Alle undici arrivo al rifugio Torino. Il sole mi accarezza, appena raffreddato da un refolo di vento fresco. Penso che me ne starò tutto il giorno qui, a riflettere sull'influenza che i massimi sistemi hanno avuto sulla mia vita. Se ne avrò voglia mi allucertolerò sotto il sole.
Per intanto entro, chè si sta bene anche dentro. C'è un bel caminetto, ti ci siedi vicino e sorseggi una cioccolata calda con uno spruzzo di Chartreuse Vert.

Lui
E' appena entrata una non-sciatrice, come me, e subito me la devo studiare per bene. Potrei addirittura compilare il modulo notizie che mi ha data la mia amica sceneggiatrice: età, capelli, occhi, scolarità, interessi, misura del reggiseno (no, quella non c'è nel modulo, è nella mia testa). E invece mi sorprendo a guardarle gli occhi che, a tre metri, sono ben ispezionabili. Verdi, verdi come il mare dentro a certe grotte, di un verde luccicante che sfuma nel blu. Occhi che non nascondono bene una vita rigogliosa. Il reggiseno comunque è quello di una quarta.
Si è accorta che la fisso: devo distogliere lo sguardo con nonchalance. Ci provo ma non sono sicuro di  riuscirci.

Lei
Mentre sento colare lungo l'esofago il cioccolato alcoolizzato mi rendo conto di essere osservata: è come se mi arrivasse sul collo un soffio caldo di desiderio.
Purtroppo proviene da un homunculus che da tempo ha rinunciato a pesarsi. Capisco che una volta era biondo, perché ha baffi biondi. I capelli non più. E' seduto a un angolo della sala (si vede che ha l'ansia di controllare tutto) e ha davanti a sé un grosso quaderno. Una penna in mano. Mentre mi fissa spinge su e giù il pulsante della penna, ma non nervosamente.
E' un momento che nel rifugio siamo solo noi due, oltre a un barista dedito alla Settimana Enigmistica. Chissà se ci prova. Potrei anche far due parole.

Lui
E' sempre preoccupante rivolgere la parola a una sconosciuta. Pericoloso. Rischi di essere insultato ("levati di torno, ciccione"), di essere gelato da una frase sprezzante, di essere considerato trasparente (anche se i miei kili rendono poco verisimile questa ipotesi).
Però qualche volta il desiderio di attaccare una spina è più forte della paura. "Anche lei preferisce il dentro al fuori?" è stata la frase che è uscita dopo un'istantanea e inconscia ricerca nella directory "frasi di circostanza". Mi ha stupito la sua risposta che, al di là delle parole, dimostrava il mio stesso interesse a chiudere quel circuito.

Lei
E' un cuoco, ecco perché è così grasso. E' comunque un grande affabulatore, oltre che un evidente abbuffone. E' rimasto estasiato quando gli ho detto cosa ho messo nella cioccolata calda. Abbiamo parlato fino all'ora di pranzo, con quella confidenza che si riserva agli sconosciuti.
Mi ha invitato a pranzo, e per me è stato naturale accettare. Si è persino permesso di andare in cucina, presentarsi e spiegare a un esterrefatto chef come avrebbe dovuto cucinare i medaglioni di cervo col coulis di mirtilli e la panna acida. E mentre li mangiavamo me li raccontava così bene che metà della squisitezza del piatto è venuto dal suo racconto.

Lui
Non è stato per niente difficile coinvolgerla nel mio mondo. Non ha la fissa del cibo come me, fissazione che talvolta diventa malinconia del cibo, e quindi non è grassa, ma ha nei punti giusti quelle rotondità che invitano a stringerle. Quando è stato il momento, dopo due flutes di Krug (lo so, mi tratto molto bene) l'ho invitata a mangiare insieme quassù.
Nelle rarissime pause in cui prendevo il respiro ha provato a raccontarmi della banca: il fatto è che quando parlo di cibo mi infervoro. Siamo stati bene. "Stasera vorrei cucinare per te". Il divertente è che non le ho neanche chiesto come si chiama, come lei del resto.

Lei
Stiamo scendendo con la funivia, silenziosi. Questo sconosciuto tricheco, a cui non ho nemmeno chiesto il nome, mi ha invitato a cena a casa sua e io, ascoltando un'altra me stessa, ho accettato con gioia.
E' l'ultima sera della settimana bianca: se proprio devo fare una cosa imprevista con lui mi piacerebbe. Non ho mai avuto trichechi sopra di me. Ciò non toglie che questi minuti in funivia, assieme ad altri 98 umani, ci rendono silenziosi, e oscenamente schiacciati.

Lui
Ho fatto bene a riordinare la casa prima di salire al Torino. E' rimasta colpita dall'assenza del letto, me ne sono accorto perché lo cercava con un'insistenza sospetta. Ah ah, è proprio ben nascosto.
Non so che musica le piaccia: le faccio scegliere fra Billie Holiday e Edith Piaf, due mondi musicali fra loro lontanissimi, vicinissimi nelle vicende della vita. Ha scelto la Holiday, non ne avevo dubbi.
Intanto le preparo lo Spritz, con lo champenois.

Lei
Questa monolocale è un po' la copia del rifugio, è carinissimo. Immagino che dorma sul divano, è così grasso che avrà difficoltà a respirare, il leone marino. Ha messo su un vinile di una cantante che non conosco ma appena ho iniziato a sentirla un dolore antico si è travasato dalla sua voce nel mio cuore. Anche col disco mi vuol dire qualcosa.
Mi ha messo in mano un bicchierone con un liquido arancione buonissimo, con dentro tante striscioline di buccia di limone, luccicanti. Incominciamo bene.
Quando il disco finisce mi propone di andare a fare la spesa: sono curiosa di vederlo all'opera e accetto volentieri.

Lui
Adoro questo negozio, magazzino colmo di golosità nascoste. Qui mi riconoscono, e quando esco mi stringono la mano. Sarà perché sono il miglior cliente, quello che non discute sul prezzo e paga col bancomat. Ma esige il massimo della qualità. Il mio saluto è sempre "che cosa mi proponete oggi?".
Abbiamo gironzolato un po', dovevo capire quali cibi preferisce. A un certo punto voleva comperare delle tagliatelle all'uovo. Le ho sorriso, con un po' di ironia, dicendole "Le tagliatelle te le faccio io!".
Abbiamo costruito insieme il menu, molto leggero, entrambi con la testa al dopo cena.

Lei
Sta facendo la pasta all'uovo. Si è fatto la fontana, ci ha rotto dentro le uova e sta impastando con grande generosità: è proprio vero che cucina per amore. Chissà se toccherà il mio corpo con la stessa soddisfazione.
Prima di mettersi il grembiule mi ha preparato qualcos'altro da bere: lo Skywasser. Nulla di più delizioso. Mi ha anche detto con dolcezza "siediti e rilassati", ma ho capito che non vuole aiuto. E non sa che favore mi fa. Certe sere la mia cena consiste nello spostare dei contenitori dal freezer al microonde, e poi ragionare se il gusto corrisponda a ciò che è scritto sull'etichetta. Il più delle volte non c'è concordanza.

Lui
Ho finito di cucinare, stremato ma contento. Tutto è riuscito perfettamente. Anche la tavola, che ho apparecchiato come il più chic dei ristoranti. Le accosto la sedia dal di dietro e le porto il vassoio con il primo piatto, tagliolini alle erbe con dadini di mocetta valdostana e ananas flambè. L'ho inventata sul momento.
L'espressione dimostra che non crede alle sensazioni che provengono dalla bocca. Un'esperienza erotica, senza dubbio. Una bella emozione.

Lei
Quest'uomo cucina da dio. Mi sorprendo a pensare che se scopa come cucina domani in pullman avrò molto sonno. Mi ha messo in bocca gusti che non ho mai assaporato. Il Chicken Korma è stato celestiale. Anche il vino che ha scelto, Ciliegiolo, è stato all'altezza del cibo.
E adesso siamo qui, ancora a tavola, a sbocconcellare una stupida crostata con la crema pasticciera al cacao, e beviamo il Marsala superiore che ha aperto per me.
Mi alzo e mi accovaccio sul divano, col bicchiere in mano.

Lui
Adesso la musica la scelgo io. Ho messo su Ray Charles, che ha sempre il suo fascino. La mia cucina è stata all'altezza della fama del mio ristorante.
Son curioso di sapere che odore ha la sua pelle, e glielo dico. Si scopre un po' la spalla e io non perdo l'occasione per un bacino baffuto. Fa un sorriso, come solleticata, e poi mi cinge la testa col braccio. Da quel momento gli orologi si sono fermati. Abbiamo incominciato a librarci su di una nuvoletta e Ray Charles ha cantato infinite volte "Georgia on my mind".
Ci ha svegliato la luce del giorno.

Lui e Lei
Siamo in macchina che torniamo alla casa base, e al nostro lavoro di tutti i giorni. Ci stringiamo le mani, io la destra e lei la sinistra. Non vogliamo parlare. E' stato così bello che entrambi siamo sicuri di avere solo sognato. Una goccia di Marsala sulla sua camicetta le ricorderà che è tutto vero.
Dobbiamo ricordarci di dirci almeno come ci chiamiamo.



venerdì 1 marzo 2013

VITA NEI CAMPI (con buona pace di Giovanni Verga)

Ante scriptum: ultimamente la cronaca nera mi attira e mi piace riraccontarne le vicende.
Il protagonista di questo post è un piccolo dio del male, a suo modo affascinante, anche se spregevole.



Michele è, o si crede, il dominus della sua famiglia, è il primo dei quattro figli di Rosalia. E' nato nel 1955. All'interno della famiglia fa e disfa a suo piacimento i destini degli sventurati che hanno a che fare con lui. Una famiglia racchiusa da un guscio impenetrabile, una delle tante famiglie del Belice.
Il benessere degli anni '60 lo sfiora soltanto attraverso l'immagine distorta che di esso ne dà la televisione, comunque finestra su un mondo a lui negato e sconosciuto. E lui ritiene che partecipare di quel benessere, vero o presunto che sia, sia un suo diritto. Deve prendersi tutto quello che desidera.
E' sempre stato un figlio difficile Michele, anche ad ammazzarlo di botte, cosa che suo padre, prima di morire, ha fatto fin da piccolo, senza riuscire a piegarlo. Dopo la sua morte Michele è diventato lui, il capofamiglia, anche se aveva solo diciott'anni.
Un giorno mise gli occhi sulla figlia di sua sorella, una bambina di nove anni, e lui ne aveva venti. Da quel momento non ha più avuto un momento di pace: una fiera in gabbia. E sempre ubriaco. Tutti se ne erano accorti, meno la bambina. Nessuno ha tentato di proteggerla. Perché avrebbe dovuto rinunciarci? Del resto lui si era preso sempre tutto quello che voleva.
Si trattava di aspettare soltanto il momento giusto, che arrivò un assolato mattino di giugno del 1982, col silenzio rotto soltanto dalle cicale. Lui non doveva chiamarla con qualche scusa. La chiamò e basta.
La piccola, stupita inizialmente da quelle attenzioni, perse a nove anni l'unica cosa che per lei avrebbe potuto rappresentare una qualche ricchezza. Acquistò invece un ricordo che con il passare degli anni sarebbe divenuto sempre più atroce.
Lui non fu certo impietosito dal pianto muto della bambina. La spogliò con calma ma senza alcuna delicatezza. In quegli attimi il suo tempo interno scorreva con una lentezza che centuplicava l'eccitazione.
Dopo la minacciò, anche, ma la nipote era così sorpresa e avvilita che non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.
Michele cadde per qualche ora in un torpore che gli impedì di pensare: un attimo prima di addormentarsi gli balenò nel cervello l'idea che poi non era stato così piacevole come se l'era immaginato in quei mesi di attesa. Pazienza. Del resto il padrone era lui, e poteva benissimo permettersi di fare qualsiasi cosa, comprese le cose che, col senno di poi, non gli sarebbero piaciute tanto.

Passano otto anni.

Quella buttana di mia sorella Caterina ha lasciato il marito ed è andata a fare la pastora con Paolo, il marito dell'altra nostra sorella. Che siano maledetti. Per colpa loro non posso più andare alla cantina a giocare alle carte. Tutti mi guardano senza dire niente e si guardano fra loro con certe occhiate che mi fanno impazzire. Voglio entrare all'osteria a testa alta, io. Tutti mi devono portare il rispetto che mi è dovuto.
Devo punirli. Oltretutto quella troia vuole portare la figlia dal ginecologo e potrebbe saltare fuori anche quella storia vecchia. Anche mio fratello Giuseppe è incazzato: quell'uomo di merda non doveva lasciare nostra sorella Francesca, ha disonorato tutta la nostra famiglia. Quei soldi che Giuseppe ha dato a Caterina se li godrà anche lui.
Domani io e Giuseppe metteremo fine a questa vergogna. Tutti dovranno capire che la mia famiglia va rispettata.
Stamattina c'è silenzio qui intorno all'ovile. Fra un po' il sole sorge, loro staranno radunando le pecore per farle uscire dall'ovile. La mia testa è completamente vuota. So solo che domani tutti si leveranno il cappello al mio passaggio.
Eccoli! Sono entrambi un po' assonnati, non ci hanno visto.
E non ci vedranno più. Alla schiena li abbiamo presi, e sono caduti senza neanche avere il tempo di guardarsi. Che siano di esempio per tutti quelli che vogliono violare la legge della famiglia. E che se li mangino i cani.
Torniamo in paese sulla Panda senza dire una parola. Stiamo già cercando di dimenticare.

Ma che minchia vuole questo signor giudice? Come si permette di entrare in cose che non lo riguardano e che non capisce? Son passati vent'anni, era stato archiviato tutto. Sarà stata quella buttana di Enza, del resto trenta anni fa gli era piaciuto anche a lei, ne ero sicuro. Anche lei avremmo dovuto ammazzarla. Tanto non c'erano testimoni e se anche ci fossero stati nessuno avrebbe avuto il coraggio di dire una parola una. Questa è la mia famiglia e qui io sono bene e male. Nessuno può permettersi di giudicare quello che decido per la mia famiglia. Figuriamoci il signor giudice. Mi ha persino chiamato per interrogarmi, quel cornuto.

E stamattina alle quattro sono venuti a prendermi e mi hanno portato in cella di sicurezza. Che dio li maledica. Dovrò anche spendere i soldi dell'avvocato. Ma non possono farmi niente, non a me.