lunedì 31 dicembre 2012

Don Gennaro


Don Gennaro non era proprio quel che si dice un uomo qualunque. Era entrato in seminario a 25 anni, dopo avere fatto tutto quello che aveva voluto. A 16 anni, finita con difficoltà la terza media, complice anche la sua incapacità assoluta di andare d’accordo con i genitori, si era imbarcato su una delle tante navi che girano per il Mediterraneo. Era stata un’esperienza durissima e se avesse avuto la possibilità di conoscere Dante avrebbe ben fatti suoi quei versi “…come sa di sale lo pane altrui…”, ma non lo conosceva. In quei quattro anni infernali aveva dovuto crescere e a casa era ritornato un uomo. Incattivito forse, ma non solo. Un uomo che aveva capito che in certi momenti sentire vicino la solidarietà di un tuo simile può fare molto bene.
Certo era diventato un po’ un solitario, anche perché in quella nave era l’unico a cui piacessero certe cose, e spesso neanche lui sapeva dirne il perché. Armeggiando con una vecchia radio recuperata in una stiva aveva trovato una stazione pirata che trasmetteva musica classica e, in quell’unica ora giornaliera libera dal lavoro, ascoltava rapito, e si provava anche a cantare certe arie d’opera che gli riempivano gli occhi di lacrime.
Quando sbarcavano nei porti, come tutti, andava a cercarsi una donna e qualcuna di queste addirittura la era andata a trovare anche più di una volta, ma era un amante frettoloso e distratto. Certo non si presentava mai a mani vuote ma in quanto ad aprire il cuore era tutta un’altra cosa. Gli ufficiali non lo stimavano, perché lo vedevano diverso dagli altri, e lui li ricambiava con un odio schietto, quell’odio che, molto semplicemente, pensi che ti impedirà di tirare un salvagente a un uomo che vedi in mare. I suoi compagni non lo consideravano uno di loro ma il lavoro lo faceva, presto e bene, e questo era tutto quello che a loro interessava.
Quattro anni di questa vita, ingentilita soltanto da una vecchia radio gracchiante, lo avevano anche cambiato nell’aspetto: una barba rossa, arruffata, e un occhio che era diventato attento e penetrante.
A 20 anni, da un certo punto di vista rassegnato a convivere con la madre, il padre era morto quando lui era per mare, si cercò un posto di lavoro a Napoli. Sarebbe stato molto facile lavorare con quelli lì, che avevano sempre bisogno di cavalli freschi ma Gennaro con la droga non voleva averci niente a che fare. A Marsiglia aveva avuto l’occasione di vedere un ragazzo in preda a una crisi di astinenza e non gli era punto piaciuto. La fortuna e/o il Cielo, vollero che Gennaro trovasse qualcosa da fare in un doposcuola gestito dal vecchio prete. Non gli veniva chiesto di aiutare una cinquantina di ragazzi a fare i compiti, del resto non ne sarebbe stato all’altezza, gli veniva chiesto di cercare di tenerli un po’ a bada, di farli giocare o, comunque, di non farli scappare.  Sei ore al giorno, tutti i giorni. Duecentomila lire al mese. Sua madre non fu particolarmente contenta ma quel piccolo aiuto e l’avere in casa un figlio che credeva perduto le aprirono un mezzo sorriso nella bocca sdentata.
Gennaro invece, forse perché ricordava la dura vita della nave, da subito in mezzo ai ragazzi si trovò bene. Il più grande poteva avere dodici anni, il più piccolo sei, e lui, inconsapevolmente, si sentiva il fratello maggiore di tutti. Si inventava dei giochi per loro e vedeva che si divertivano parecchio, giochi in cui non c’era un protagonista ma c’era una squadra, che contro un’altra squadra poteva vincere se soltanto avesse messo insieme le proprie forze e se ogni giocatore di quella squadra fosse stato impiegato nella maniera migliore, cioè secondo le sue capacità. E lui era un arbitro che alla propria imparzialità teneva da morire. Voleva essere giusto, a tutti i costi.
Quando era il momento dei compiti cercava di richiamare alla memoria quelle poche cose che aveva imparato a scuola ma spesso era in difficoltà. Possiamo dire adesso che voleva così bene a quei ragazzi che la sera cercava di studiare, sui suoi vecchi libri che mammà non aveva buttato via, per poterli aiutare meglio nei compiti il giorno dopo.
Il vecchio prete vedeva tutto questo, ed era capace di vedere anche molto oltre. Aveva sentito con le orecchie del cuore qualcosa in quel ragazzo che meritava di essere coltivato. E quindi pregava per quel ragazzo, pregava tanto. Aveva una piccola statua della Madonna di Pompei e a Lei lo aveva affidato, perché continuasse la sua opera con i ragazzi, per levarli dalla strada. Due rosari al giorno almeno, uno alle quattro del mattino e uno alle undici della sera, il più faticoso anche se quello che dava maggiore serenità.
Anche Gennaro, uomo tutto sommato piuttosto selvatico, si era affezionato al vecchio prete, perché lo vedeva trattare quei ragazzi come fossero tutti figli suoi, e tutti con la stessa giustizia che usava lui nel gioco, tutti eguali, ma unici ed irripetibili.
Nei loro rari momenti di libertà Gennaro vedeva il vecchio prete assorto in preghiera, con il rosario in mano e questa cosa lo riempiva di stupore. Ragazzi e preghiera. Preghiera e ragazzi. Poco a poco trovò del tutto naturale unirsi a lui nella preghiera e ad usarla come arma, a quanto pare molto efficace, nelle avversità che il prete e i ragazzi ogni giorno incontravano. Lui gli regalò anche un vecchio libro di preghiere, unto e bisunto e tenuto insieme da un elastico, che Gennaro si affrettò a finire con grande diligenza. Il vecchio prete capì che quando sarebbe stato il momento i suoi ragazzi non sarebbero rimasti soli.
Dopo cinque anni Gennaro entrava in seminario. Era certo di voler diventare ed essere come il vecchio prete. Quando partì sua madre, per la prima volta, buttò fuori qualche lacrima di felicità.
In quegli anni del seminario i suoi ragazzi gli furono da guida e mèta, anche perché lui non era proprio abituato allo studio e cose da studiare ce n’erano tante, e i professori severi. Tutte cose nuove per lui, teologia, sacra scrittura, liturgia. Fu ordinato sacerdote il 18 luglio del 1980 e il suo più grosso cruccio fu che il vecchio prete fosse mancato pochi mesi prima. Ma Gennaro era certo che quel giorno gli fosse comunque molto vicino, anche più della mamma che era lì in chiesa.
Il vescovo lo destinò alla parrocchia di Sant’Angelo dei Lombardi e don Gennaro vi andò col cuore pieno di letizia, sicuro che anche lì i “suoi” ragazzi non sarebbero mancati. E infatti. Non molti in verità, ma a tutti ogni giorno cercava di trasmettere quelle cose che aveva dentro e che sapeva che a loro sarebbero servite: onestà, cioè mostrarsi a tutti come si è, e giustizia, cioè trattare tutti alla stessa maniera, cose che facilmente permettevano di andare la sera a dormire con il cuore in pace.
Era riuscito, non chiedetemi come perché neanche io sono riuscito a saperlo, a portarsi dietro la Madonna di Pompei del vecchio prete e l’aveva sistemata in una nicchia vuota della parrocchia. Pregandola quotidianamente, come lui gli aveva insegnato, traeva forza e coraggio, nelle quotidiane difficoltà della vita pastorale. Non aveva neanche una vecchia radio, nella quale avrebbe potuto ascoltare le arie d’opera della sua giovinezza, un mondo fa.
La sera del terremoto fortunatamente lui era in strada e poté quindi andare a cercarsi i suoi ragazzi, uno per uno. Qualcuno non riuscì a trovarlo, purtroppo, ma cercò di mascherare il dolore perché non voleva che gli altri se ne accorgessero. Li portò fuori dal centro abitato, e cercò di farli giocare per dimenticare quello spaventoso disastro in cui erano immersi e si inventò un memorabile gioco notturno.  Il mattino dopo li riportò in paese, dalle loro famiglie. Quei due ragazzi finiti sotto le macerie non smettevano di girargli in testa. Capì che aveva bisogno di pregare, perché non riusciva a farsi una ragione della loro morte. Entrò in chiesa, pur vedendo che era piena di calcinacci e con uno squarcio nella volta.
Lo trovarono la sera, davanti alla Madonna di Pompei del vecchio prete, con le mani giunte e con una grossa pietra appoggiata sulla schiena. Le labbra atteggiate a un piccolo sorriso.


domenica 30 dicembre 2012

Dita

Si è appena addormentata. Il suo respiro è superficiale, regolare. La luce della sera filtra dalle fessure della tapparella, schermata dalla tenda, e disegna sul muro righe rosate e sfocate.
Passa in lontananza un treno, proprio lungo il mare, e il rumore del suo sferragliare giungendo al paese vecchio si stempera, e diventa l'occasione per ricordarmi sommessamente che sono ancora sveglio. Dal giardino della villa vicino a casa giungono gridolini di bambini che si attardano a giocare. 
Sono incantato da questo momento un po' rarefatto, e il tempo mi si è fermato dentro. Solo il buio che si allunga nella camera mi avvisa che è tardi. 
Mi volto verso di lei, che mi mostra, fra la maglietta e lo slip, una striscia di schiena che oscilla ritmicamente come un pendolo. I lunghi riccioli neri le coprono le spalle. Ogni tanto viene scossa da un tremito, come se nel sogno avesse un attimo di paura. E' accovacciata su un fianco, come un feto. Non mi stupirei se avesse il pollice in bocca: del resto a conoscerla bene è ancora un bambina. Vorrei alzarmi, bere qualcosa e fumarmi una sigaretta ma sono come paralizzato da un piacevole torpore, più gradito dell'alcool e del fumo. E' anche vero che ho paura di svegliarla, non voglio interrompere questo suo riposo così sereno. Allungo le gambe con grande attenzione e giro la testa verso il comodino, dove ho posato l'orologio, quello che mio padre aveva destinato a me. Mi conferma che è tardi, ma non ho nessuna voglia di tirarmi su. 
Stendo il braccio e le accarezzo i capelli, mi avvolgo un boccolo corvino attorno al mignolo: bofonchia qualcosa e si volta continuando a dormire.
Adesso posso intuirle i tratti del volto nella penombra: è sempre bellissima, identica in tutto e per tutto a com'era quando ci siamo conosciuti, o forse soltanto eguale all'immagine che di lei mi porto dentro, gli occhi così scuri da nascondere la pupilla, la bocca sempre aperta al sorriso. Improvvisamente si rimbocca il lenzuolo, anche se questa serata settembrina è ancora calda.
Non riesco a smuovermi: so che dovrei andare ma sono come paralizzato. Incomincio a guardarla con altri occhi, come fosse una sconosciuta e come se solo adesso avessi la possibilità di svelarne la bellezza. Ho voglia di scoprirla e di svestirla ma non oso, non la voglio disturbare. Era tanto stanca, è giusto che riposi.
Metto soltanto la punta dell'indice sulle labbra chiuse e le porto un piccolo bacio sulla fronte. Niente di più, ma basta per svegliarla. Con occhi ancora riconoscenti si aggrappa a me e mi stringe. "Ciao", mi mormora all'orecchio, ricadendo nelle nebbie del sonno. "Ciao" e basta. Non siamo mai stati capaci di dirci tante parole, è un nostro limite, ed entrambi ci esprimiamo di più con le parole non dette, e quelle poche che diciamo le carichiamo dei significati più profondi, con l'ovvio risultato che spesso siamo gli unici a comprenderle.
Però il "Ciao" sussurrato da lei è stato comunque la cosa migliore di questa giornata. Me ne sto. 
Mi divincolo con delicatezza e mi vado a vestire, controvoglia.