domenica 29 aprile 2012

Borgate

Quel venerdì sera Salvo era proprio contento. Aveva comperato un mazzo di fiori per la sua donna, non rose, per carità, soltanto per farle capire che aveva lavorato tutta la settimana col pensiero di lei fisso in testa. Cinquantamila lire, aveva guadagnato. Non solo sudore ma anche sangue. Era inciampato nel cantiere, con due secchi di calce in mano e aveva preso una facciata nel cemento. Niente di che, ma la riga in faccia faceva bella mostra di sé.
E meno male che quella settimana aveva lavorato. Nelle precedenti o non era stato chiamato o era piovuto e solo la disponibilità di Marco, l’alimentarista, aveva permesso loro di potersi comperare qualcosa da mangiare. Lui si poteva contentare di due fette di pane con la mortadella, che buona!, ma la bambina doveva assolutamente mangiare bene. Era contento, avrebbe potuto comperarle una fettina di vitella, da cucinare ai ferri. Due ne avrebbe prese, una anche per la mamma. Forse sarebbero persino riusciti comperare anche quell’ombrellino che avevano visto nel negozio sul corso, dal cinese, Ada ci aveva fatto una malattia.
Ada. Povera ragazza. L’aveva conosciuta solo un mese prima, a una sagra alla Garbatella dove era andato per passarsi una serata da cinquecento lire, con quell’aria da gatta famelica e spelacchiata. Avevano ballato un po’, entrambi senza molta convinzione. Poi si erano seduti davanti a una birra, una per tutti e due, e avevano parlato, prima circospetti e via via sempre più liberamente, delle loro piccole vite da borgatari.
Gli aveva fatto pena, con la storia di un matrimonio durato troppo poco ma abbastanza per fare una figlia, a cui lei teneva più di sé stessa. Parlando della figlia le si erano riempiti gli occhi di lacrime. Il padre voleva a tutti i costi riprendersela ma il giudice, una donna, l’aveva affidata a lei, con la promessa, forse una minaccia, che ogni settimana l’assistente sociale si sarebbe fatto vedere, per controllare come viveva la bambina. Ada era terrorizzata al pensiero che la relazione dell’assistente avrebbe potuto far cambiare idea al giudice.
Salvo non era uno stinco di santo. Aveva avuto qualche problema e aveva anche passato sei mesi a Regina Coeli, sei lunghi mesi in cui ogni notte era stata martellata dalle grida dei detenuti, laceranti grida in tutte le lingue, lamenti che gli avevano marchiato il cuore, con un segno che sarebbe rimasto incancellabile. Si era giurato di non tornarci più, solo per non sentire più quelle urla. Del resto ogni volta che aveva rubato (e anche quella piccola truffa, da un milione) era sempre stato per una necessità incombente della vita che non poteva essere soddisfatta diversamente. Ma questo il giudice non lo poteva capire.
Non si erano neanche baciati. Erano semplicemente andati via insieme e quella sera lui era andato a casa di lei. Del resto era un randagio, e il dormitorio pubblico era stato spesso una soluzione, non solo per dormire ma anche per farsi un bagno e rimediare qualche abito. Ada gli aveva messo a disposizione un divanetto, troppo corto per lui, così che i piedi e mezza gamba gli sporgevano, e una coperta piena di bruciature di sigarette. Ma quella sera aveva dormito bene, perché aveva in un certo senso l’idea che anche lui avrebbe potuto avere una famiglia.
Non era come con le solite donne che trovava, con le quali, persino durante l’amplesso, si sentiva un triste estraneo. Meno male che la natura veniva in suo soccorso e lo faceva sprofondare, dopo, in un sonno cieco.
Camminava così, contento, con quel suo piccolo mazzo di fiori di campo, portato però con l’orgoglio di un trofeo.
Arrivò a casa alle nove, il cantiere era distante dalla casa di Ada. Lei non era ancora arrivata. Strano. La bambina era sola, addormentata nel suo lettuccio.
Salvo si stupì. Ada non lasciava mai la bambina sola.
Le diede una carezza, pensando a come sarebbe stato bello che fosse stata figlia sua.
Sistemò i fiori in un pentolino, che riempì di acqua. Qualcuno gli aveva detto che l’aspirina fa durare di più i fiori nei vasi, ma chissà se in quella casa ce n’era di aspirina. Intanto la bambina dormiva, piccolo angelo mio, e si muoveva come se camminasse nel sogno. Salvo si ricordò che anche il suo cane faceva così.
Si accoccolò sul divano e incominciò ad aspettare Ada, e a pregustare la sua contentezza quando avrebbe visto il mazzo di fiori, e l’involto della carne, soprattutto.
Chissà se gli avrebbe dato un bacio, o addirittura lo avrebbe abbracciato. Nelle effusioni erano entrambi molto timidi e riservati, e il tenersi la mano stretta era tutto quello a cui erano arrivati in quel mese di convivenza. Ma attraverso quelle mani passava un fluido, una corrente che era capace di dare calma e serenità, cose di cui entrambi avevavo un bisogno fottuto. Poi il resto, se doveva venire, sarebbe venuto. Adesso l’importante era raccogliere i cocci di quelle due vite, e cercare di costruirci qualche cosa.
Ada arrivò alle quattro e dieci. Sbatté la porta e Salvo fece un tale salto che rischiò di cadere dal divano.
“Ho fatto un casino”, gridò, incurante di rischiare di svegliare la bambina.
“Che cosa è successo?”. “Ho ammazzato un uomo”. “Ma che dici”? Salvo le porse un bicchiere d’acqua e la guardò. Nella penombra era ancora più bisognosa di aiuto. “Siediti e raccontami con calma”.
“Sono uscita con la mia amica Anna. Siamo andate a quel bar sulla Salaria, dove c’è il juke-box. Abbiamo ballato. Non so più quanto ci siamo state. Al ritorno ho dovuto guidare io la sua macchina, era troppo ubriaca. A un tratto mi è sbucata fuori una bicicletta, da una stradina laterale. Non ho neanche frenato, l’ho sentita sul cofano e l’ho vista volare per qualche metro.
Non mi sono fermata, non posso, lo capisci? Mi porteranno via la bambina”, e incominciò a piangere sommessamente, farfugliando parole scomposte. Salvo notò che il suo alito non era il massimo della sobrietà.
Capì che, se mai ve ne fosse stato uno, questo era il momento di abbracciarla, e lo fece con tutta la forza e la delicatezza di cui era capace, stringendo quelle quattro ossa scosse dal tremito del pianto.
La mise a letto e le diede il primo bacio, forse l’ultimo. L’alcool la fece addormentare quasi subito, in un sonno rumoroso.
Un bel casino. Salvo si prese l’ultima birra dal frigo e si accese una nazionale. Andò a sedersi a tavola e prese la testa fra le mani.
Non ci voleva, non ci voleva, andava tutto così bene. Anche l’assistente sociale l’ultima volta le aveva fatto i complimenti per come aveva trovato la bambina.
Salvo sapeva che Ada beveva, e pensava che questo problema col tempo, e insieme, si sarebbe potuto risolvere. Ma adesso poteva cambiare tutto, e in peggio. La bambina sarebbe stata affidata al padre. Il processo, la galera. Ada non avrebbe sopportato tutto questo. L’avrebbe persa e, soprattutto, si sarebbe persa.
“E mo’ che faccio?”. Una buona domanda.
Alle sette si alzò dalla seggiola. Mise sotto la pentola con i fiori un pezzo di carta stracciato da un quaderno, su cui scrisse con l’incerta grafia della sua terza elementare, “Ti voglio bene”.
Uscì in camicia, noncurante del freddo della mattina romana, e si diresse verso il commissariato della zona.
Era contento, allo stesso modo della sera prima quando era arrivato con fiori in mano. Sapeva di fare una cosa giusta, la prima della sua vita, che neanche dio avrebbe potuto dirgli che non era così.
Il commissariato iniziava appena l’attività della giornata e il piantone aveva l’espressione di chi reclamava un’altra ora di sonno. Svogliatamente lo accompagnò dall’ispettore. “Buongiorno. Volevo denunciare che ho ucciso un uomo”.