domenica 17 giugno 2012

Sto tornando a casa


Tre anni sono stati lunghi, e anche se la East Coast è bella, sono contento di andarmene. Non è stato facile partecipare a questo Master ma ci sono riuscito. E posso ringraziare soltanto me stesso, e l’impegno che ci ho messo per ottenerlo. Anche se Annabella, il mio amore, è venuta abbastanza spesso la solitudine si è fatta sentire, e i colleghi sono rimasti solo colleghi, e non hanno voluto, o forse potuto, diventare amici. Per fortuna la mia casa era accogliente, e il lavorare tutte le sere è diventato quasi un divertimento.
Sono qui, seduto in sala d’aspetto, il mio volo parte tra un’ora, e leggo con scarso interesse l’ultimo articolo che mi sono stampato. Mi batte un po’ il cuore.

E. non stava più nella pelle. Erano tre anni che non vedeva suo figlio e questa assenza gli aveva dato addosso terribilmente. Nonostante fosse un vecchio medico sostanzialmente sano, ancorché troppo grasso, questa assenza gli aveva causato tutte le malattie più strane ed era diventato lo spauracchio dei suoi colleghi più giovani, che lo ricevevano ormai solo per un motivo di correttezza professionale, perché dopo le prime due visite non era neanche più tanto divertente, con quella sua fissazione della cucina. Era solo un vecchio un po’ bizzarro, il perfetto paziente psicosomatico. Lui aveva provato all’inizio a curarsi da sé ma, non avendo mai fatto il clinico, faceva dei disastri terribili, ed era anche riuscito a collassarsi, una sera d’estate, prima di cena. La moglie, disperata, gli aveva proibito di prescriversi qualsiasi medicina e gli aveva nascosto il ricettario. Da quando il “ragazzo” era andato via quell’uomo era diventato una belva in gabbia.

Hanno annunciato un’altra ora di ritardo. Cerco di farmene una ragione ma sono seccato. Papà non sarà contento, e infatti non glielo mando, il messaggino. Vivendo tre anni negli States ho capito che, almeno riguardo ai ritardi, i voli americani sono come i treni italiani.
Papà mi ha insegnato a non mangiare certe schifezze: piuttosto, mi ha sempre detto, comprati un pezzo di pane e un po’ di affettato. E soprattutto tanta frutta. Ma non conosceva il pane che vendono negli aeroporti californiani. Mi consolo con la frutta. Riapro il mio bagaglio a mano per dare ancora un’occhiata al diploma: non ho avuto il coraggio di metterlo nella valigia, non riuscirei a tollerare che vada perduto. E’ proprio un bel diploma, e dietro, anche se non c’è scritto niente, leggo la storia di questi tre anni.
Chissà se questo pane è buono con le pere?

E. ogni dieci minuti guardava l’orologio, come se potesse, con la forza solo dello sguardo, accelerarne il moto. E invece sembrava fermo, più fermo del solito. Gli orologi erano un’altra delle sue manie. Si ostinava a usare soltanto orologi che necessitavano di essere caricati, alla sera, orologi con certe caratteristiche particolari che solo lui capiva, come il quadrante obbligatoriamente nero e l’assenza del datario. Nulla di male in tutto ciò ma la sera si dimenticava, con identica maniacale regolarità, di dargli la corda. E spesso durante la giornata perdeva completamente la nozione del tempo, e arrivava agli appuntamenti con gli amici magari con due ore di ritardo, ammesso che si ricordasse il posto. Gli amici c’erano abituati, erano più le volte che non lo vedevano o per questo motivo o perché lui, all’ultimo momento, decideva di non andarci più, che poi a quell’aperitivo si sarebbe sentito comunque fuori posto, e si sarebbe annoiato. Adesso che non lavorava aveva più tempo libero, col risultato che si abbruttiva più del solito in attività prive di qualsiasi interesse.

Finalmente sono salito. Che splendore quella hostess! Meno male che Annabella non è  qui con me sennò chissà che musi. Sarebbe capace di non parlarmi per tutto il viaggio, che oltretutto è di parecchie ore. Mi ricordo bene la prima volta che venne trovarmi, dopo tre mesi di campus. La prima sera l’ho portata a mangiare, per andare sul sicuro, da Luca, un ristorante italiano appena fuori del muro di cinta. Sapevo che sul mangiare è difficile e non volevo rovinarci la serata. Ho ancore in bocca il sapore di quei bucatini all’amatriciana, sarebbero piaciuti anche a Papà. Una bella serata, soprattutto per il dopocena. Peccato che sia stata solo una settimana ma forse è stato meglio così. Ho potuto concentrarmi meglio sulle mie colture.
E’ difficile la ricerca scientifica, ma non saprei fare altro. Devi fare un investimento a lunghissimo termine e darci dentro giorno dopo giorno, o, come dicono qui, day by day, ed essere pronto a superare ogni delusione, e a metabolizzare ogni momento di sconforto, avendo in anticipo la certezza che saranno numerosi. L’unica cosa che conta è pubblicare, pubblicare e ancora pubblicare.
Mi piace studiare ma ci sono stati parecchi momenti in cui mi sono sentito come Charlot in Tempi Moderni, uno stupido ingranaggio e basta. Ma è passata.

“Allora, andiamo?”. Il tono della voce di E. non era per niente educato ma la moglie fece finta di niente: non poteva spaccargli una sedia sulla testa come sarebbe stato il suo primo impulso, e forse non sarebbe neanche riuscita a sollevarla. “Ricordati che dobbiamo passare a prendere Annabella”, la continuò a rampognare lui con lo stesso tono. “Certo, ma l’aereo atterrerà fra tre ore, sempre che non abbia ritardo. Perché mi vuoi far perdere il tempo in questa maniera?”. “Non sappiamo quanto traffico incontreremo, poi Annabella potrebbe farci aspettare sotto casa”. “Non è mai successo, è ben vero il contrario: non ti ricordi quando l’hai fatta aspettare mezzora? E’ proprio una brava ragazza, perché quella volta avresti meritato di essere mandato a quel paese, tu e i tuoi orologi. Realizza una buona volta che sei solo un vecchio rompipalle”.
Non le rispose: del resto non capiva, non ce la faceva a capire.

Sono finalmente sopra la mia città, sto atterrando. Vedo non solo il profilo ma riesco a anche a riconoscere qualche quartiere, financo alcune case, case che in qualche modo nella mia vita sono state importanti. L’emozione che non ho provato quando sono partito si compensa tutta adesso, e so che non riuscirei a parlare. Gli occhi incominciano a riempirsi di lacrime, e ognuna porta con se un piccolo ricordo. Mi rivedo bambino, il primo giorno di asilo: la paura era tanta e quel distacco, anche se mi era stato promesso breve, mi aveva comunque preoccupato. Ora sono cresciuto: riuscirò fra poco a dire qualcosa e a non piangermi addosso? Ho proprio paura di no. Del resto Papà dice sempre: C’aggi’ ‘a fa’? Non posso mica ammazzarmi. Neanche io: piangerò.

E’ atterrato finalmente, questo cazzone di aereo.
Non so come faccia a fare tanti viaggi in aereo, io non ce l’ho mai fatta. Ancora pochi minuti e lo vedrò, più vecchio di tre anni e con quel papiro in mano che tanto lo ha fatto sudare, e tanto me lo ha fatto mancare.
Queste due donne a fianco a me continuano a parlare, beate loro. Io non riesco a spiccicare una parola. Certo sono felice per lui ma soprattutto sono stracontento per me: sono un vecchio egoista, mettetemelo nel conto. Mi sento, in questa pancia smisurata, una morsa, che mi fa dimenticare e mi fa scappare la voglia di tutti i pranzi e le cene che ho preparato e mangiato. Mi paralizza: avrei dovuto prendermi qualcosa ma quella strega mi ha messo tutto sottochiave.
Eccolo, lo vedo da lontano con la sua valigetta a mano: certo avrà dentro il diploma. Deve solo passare il controllo dei passaporti.
Incomincia a fischiarmi un’orecchio, mi si annebbia la vista e mi girano i muri tutt’intorno, non capisco: starò mica morendo?

Papà è riuscito a svenire come una collegiale dell’800. Da lontano l’ho visto che si accasciava come un sacco vuoto e ho fatto un cenno a Mamma e ad Annabella, che non se ne erano neanche accorte. Con l’aiuto del personale del terminal l’hanno disteso sulle poltroncine e gli hanno alzato le gambe. Si è riavuto proprio nel momento che gli sono arrivato a fianco e ha mormorato, in piena sintonia col personaggio, “la solita figurina di merda….”.