venerdì 21 giugno 2019

RODORFO

"Prima o poi entrerò nel cuore del mondo".
Così pensava Rodorfo, quella mattina dell'ultimo giorno della sua vita. Si sentiva una schifezza. Solo muovere il braccio, prendere il bicchiere e bersi un sorso di Falanghina gli costavano uno sforzo indicibile. Aveva imposto alla famiglia - che lui chiamava "quegli stronzi" - di dargli solo quella che lui si era sempre fatto venire da Sant'Agata dei Goti, e loro non avevano osato disobbedirgli, ma glielo annacquavano.
Aveva capito di essere all'ultimo chilometro: era tempo di bilanci. Preti no, per favore. Le istruzioni, scritte, erano perentorie.
Gli vennero in mente, dopo l'iniezione di morfina, i volti delle persone che aveva incontrato nella sua vita. A tutti aveva cercato di dare qualcosa, spesso il meglio di sé. Non aveva fatto "porzioni" per nessuno, dando a ciascuno, in ogni occasione, tutto sé stesso. Facciate parecchie.

Peter era di pessimo umore. Non aveva dormito neanche un'ora a causa di un fastidioso attacco di gotta. Sapeva che sarebbero arrivate non meno di diecimila anime (gli arcangeli dell'Ufficio Accessi gli avevano mandato il fax) e controllarle tutte sarebbe stato peggio dell'Inferno. Scacciò questo pensiero che lì era fuori luogo.
Prese il libro delle anime e incominciò a sfogliarlo. Diecimila anime da far passare attraverso quel ponte che finiva con due strade, una in salita e una in discesa, era massacrante.
Chi era lui per arrogarsi quel diritto..... era stato messo lì a fare un lavoro che non gli piaceva per nulla. Ma doveva obbedire. E non domandarsi che fine avrebbero fatto le anime da lui deviate verso la strada in discesa.
Tutto il giorno aveva lavorato, senza pausa pranzo. Era stravolto.
Improvvisamente gli si parò davanti un ometto dall'aria insignificante. Non alto, con lo sguardo attento e curioso. Occhi azzurri, forse grigi. Non aveva nulla di rassegnato. Come la maggior parte degli uomini in fila aveva un completo scuro, quello che aveva usato il giorno del matrimonio terreno. Nulla in lui faceva pensare al dolore o alla tristezza. Aveva al fianco una donna: riccioli ancora biondi le incorniciavano il viso rugoso e pallido. La sua espressione era timida e fiera.
Peter sfogliò il libro e arrivò alla pagina dell'ometto: un'aria mite ma ne aveva combinate di tutti i colori, proprio un tipo da sbarco... Non poteva dedicargli più di pochi secondi e avvicinò la mano alla leva che chiudeva l'accesso alla via in salita. La mano però si bloccò improvvisamente: come un brontolìo pareva salire dalla moltitudine ferma in attesa.
Chi mai si permetteva di fare quel frastuono? Cercò di distinguere meglio quello che gli sembrava soltanto un indistinto brusio. "Ro-dor-fo, Ro-dor-fo...". Il nome scandito, ripetuto da sempre più persone e a voce sempre più alta, ormai era chiaro a tutti, persino ai cherubini al suo fianco, che sorridevano serafici.
"Basta! Fate silenzio!!", tuonarono impotenti gli altoparlanti, mentre Rodorfo rideva lusingato.....
La donna vicino a lui era beata, tanto clamore per il suo uomo la inorgogliva. Rodorfo l'aveva fatta impazzire tutta la vita. Con lui era davvero stato un continuo alternarsi di paradiso ed inferno, ma entrambi sapevano di non poter fare a meno l'uno dell'altra, e questo forte legame era evidente osservando come si guardavano negli occhi.
Il brusìo divenne un coro da stadio. Allora Peter si incazzò davvero e chiese a Rodorfo “Cosa hanno da gridare il tuo nome?” con tono poco amichevole. “Nun o sacc, cape. Aggiu avute nu sacch amici. A tant aggiù cercate e vulè bene comme meglio puteve. Cheste è na manifestazione d’affetto che nun avria putute credere lancoppa. Forse overo a gente non se scorda...”
Vabbene, passa e prendi la strada in salita. Non voglio casino qui. Mi prenderò io la responsabilità di farti passare”.
Cape, disgraziatamente non song sule..”. “Che dici? Tutti sono soli qui, davanti a me e alla loro coscienza”. “Cape, NUN SONG SULE. Cummè ce sta ess”.
Peter voltò la pagina e la trovò subito. “Rodolfo, abbi pazienza non posso proprio.”
Nun ce sta prublem cape. Si ess non pote venì cummè ie vache cu ess all’Infierno. Aggiù trasuto into o core da gente, ma ess è nata cos. Grazie lo stesso”.
Anche lei non aveva alcun timore per quello che sarebbe capitato: in vita aveva dovuto condividere quell'uomo con altre donne, ma finalmente, e per l'eternità, sarebbe stato solo il suo. E con questa gioia e consapevolezza gli stringeva la mano.
Peter lo sapeva da mo' che quella non era giornata: l'ulcera riprese a bruciare. Anche lui doveva rendere conto a qualcuno.
Li vide scendere lungo la via verso il buio, mano nella mano. 

 

domenica 19 maggio 2019

Dialoghi da bar

«Ciao!»
«Siediti»
«Cosa prendi?»
«Già fatto»
«Potevi aspettarmi...»
«Dì tu cosa vuoi»
«E' lo stesso»
«Per favore porti alla signora un cappuccio senza schiuma e una brioche vuota»
«Non dimentichi...»
«Cosa volevi dirmi?»
«Ma niente, solite menate.»
«Allora?»
«I ragazzi che non ci sono mai, i genitori sempre più in difficoltà, quell'uomo sempre più distante»
«L'hai voluto tu»
«Sì, certo. Sai bene perché»
«Ribadisco, e allora?»
«Allora niente. Mi faceva piacere vederti»
«Di fronte o di profilo?»
«Non c'è più nulla fra noi?»
«Non quello che vuoi tu»
«Sei stupido e ostinato.»
«Non sei obbligata. Amici mai.»
«Non hai bei ricordi?»
«Ho resettato tutto»
Lei inzuppa la brioche nel cappuccio. Lui fa finta di finire un articolo ma le vede le lacrime.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Non sei più capace a darmi nulla»
«Tu mi hai reso così. Peggio per te»
Si alza innervosita e va a prendere lo scooter.
“Idiota” 
“Imbecille. Potevamo ancora condividere tante cose.”

martedì 26 marzo 2019

VACANZE

Marco non riesce a continuare l'Università. Quell'esame di Storia dell'Arte lo ha già dato tre volte. Forse il professore lo ha preso di mira. E' scoraggiato. I suoi, quando va a chiedergli di interrompere gli studi per un anno, non possono fare a meno di essere d'accordo, ma a malincuore.
Sara, l'amica di mamma, le ha raccontato che una famiglia cerca qualcuno per accompagnare un ragazzo in una vacanza in Corsica, Raffaele. E' autistico ma tranquillo. Il compenso è buono. Può essere un'esperienza formativa anche per chi lo accompagnerà, pensa la donna, e propone al figlio questo lavoretto. Vuole che si distragga.
Quando Marco va conoscere i genitori di Raffaele capisce bene che non aspettano altro che di liberarsene per qualche tempo. Hanno un'aria affaticata e sofferente. Offrono una paga troppo buona. Però lui è giovane e pieno di buoni propositi. Ed è anche poco più vecchio di Raffaele. E' già maggiorenne ma la distanza fra le loro età è piccola: potranno capirsi con facilità. Sa di poter essere responsabile di quel ragazzo che ancora non conosce. Sa di avere nel cuore la forza per difenderlo da tutto. Non ha ancora capito che Raffaele ha solo bisogno di difendersi da sé stesso.
Il giorno dopo si conoscono: Raffaele ha sedici anni, ha un'aria innocua nel corpo di un gigante: a Marco fa venire in mente Garrone di Cuore. Tiene sempre gli occhi bassi e fuma una sigaretta dietro l'altra. I genitori gli dicono che Marco lo accompagnerà in Corsica e per un attimo alza lo sguardo. In quegli occhi Marco legge il nulla. Raffaele vive in un mondo nel quale non può entrare nessuno: troppo pericoloso. Ha i suoi riti che gli permettono di sedare l'ansia, sempre in agguato. Non ci vuol niente che diventi terrore. Le sigarette lo proteggono. Ha le dita gialle a sedici anni.
Marco pensa “Si può fare” e accetta di andare un mese in Corsica con quel pacco.

Due sere dopo, al porto di Marsiglia, Raffaele si presenta accompagnato dai genitori, che cercano di nascondere la soddisfazione per quella che è la loro vacanza. Ha già le ciabattine da mare, una Lacoste rossa un po' stretta e una sacca di pelle con tutte le sue cose. Nell'altra mano ha una stecca di Gitanes papier mais, quelle gialle. Gliele ha messe in mano suo padre.
Marco lo fa salire in macchina e gli cerca la mano per stringerla. Stanno un'ora in macchina ad aspettare l'imbarco e Marco non riesce a trovare nulla di sensato da dire.
Raffaele si guarda intorno, ha già voglia di scappare.
Finalmente sono sul ponte B, quello dove ci sono le poltrone reclinabili prenotate. Non c'è la zona fumatori, per cui Raffaele deve andare e venire sul ponte, al freddo della notte. Marco dietro a lui.
Finalmente l'autistico – Marco ha letto in questi due giorni che è uno dei sintomi della schizofrenia – si addormenta.
Un rollìo della nave lo sveglia improvvisamente: la poltrona a fianco alla sua è vuota.
Si alza, colpito da una scossa elettrica “Ma non si sarà mica buttato a mare quello stronzo?” ed esce al buio. Lo cerca per mezzora, bestemmiando lui e sé stesso, senza trovarlo. Alla fine si rivolge a un assonnato commissario di bordo, che lo guarda con commiserazione. Tutto il personale libero viene sguinzagliato per la nave e dopo due ore, quando sul mare inizia il chiarore del mattino, un marinaio lo trova sul ponte più alto, rannicchiato, circondato da decine di cicche di sigaretta gialle.



mercoledì 13 marzo 2019

E' USCITO!

Ogni tanto il lavoro è premiato.
Chi avrebbe mai detto che il mio "roman roman" avrebbe incontrato la benevolenza di un editore?
Eppure è successo...
Il 29 dicembre l'editore Fabrizio De Ferrari mi ha telefonato dicendomi che era interessato a pubblicare il mio romanzo...  Questo vuol dire finire l'anno a mille!

Ed ecco che adesso è finito, stampato nella sua carta odorosa, con quella bella foto del Flatiron di New York. Non ci credo ancora.

I miei lettori del blog hanno avuto qualche anticipazione nei post precedenti. C'è stata qualche modifica ma non sostanziale. L'eroina ha cambiato nome.
Chi vorrà potrà comprarlo direttamente al sito dell'editore:


https://www.deferrarieditore.it/prodotto/alicia-croft-la-sacca-pelle/


Questo libro è stata la cosa migliore che ho fatto nel 2018.
Il secondo è già pronto (è la raccolta del blog, riveduta e corretta minuziosamente) e, dato che ho un ego smisurato, vorrei proporlo a un grande editore, che ne so, Mondadori. Sognare è bello ed è lecito.

Sto già scrivendo il terzo: chissà che non riesca a scriverlo in minor tempo. E' una storia italiana, che si svolge nel 1971, a Milano. Una storia di persone e di ufficio.
Scrivere è veramente un grande divertimento, peccato che si debba anche lavorare!

Anche se non vi conosco tutti vi ringrazio uno per uno.

A presto.

euge




NAT E ECHO

Narciso, Nat per gli amici, stava facendo colazione al solito bar, prima di salire in ufficio con il caffellatte in mano. La barista, una delle sue beneficiate, prima del caffellatte gli faceva un uovo sbattuto col marsala siciliano. Non voleva essere pagata in dollari.
Nat era alto e magro ma non ossuto, con l'ombra della barba appena fatta su una mascella più che virile. Un sorriso ironico e accattivante. Un completo blu notte di fattura italiana. Un novello Eros sceso in terra per allietare le donne, consapevole di emanare tanto fascino quanta era la fragranza del profumo che usava.

Echo lo guarda rapita: non avrà mai un uomo così, anche se non ha ben chiaro cosa vuol dire avere un uomo. Non è brutta ma si considera insignificante. Vorrebbe raccontare a tutti quanto le piace il lavoro che fa, la custode del parco, ma non ne è capace. Tutto il giorno a contatto con la natura.
Seduta a un tavolino condivide con quell'uomo solo il caffellatte. Se lo mangia con gli occhi, e abbassa lo sguardo solo quando lui la fissa a sua volta. Ma un attimo dopo, appena lui volge lo sguardo, ricomincia, con la stessa intensità della luce di un faro che illumina il mare nella notte. Ma è lei ad essere abbagliata. Le basterebbe una carezza. Vorrebbe dirgli mille cose ma tace, impotente.
Lui è infastidito e inorgoglito. Come si permette quel ragnetto, con una divisa da spazzino, poi.... però è un pavoncello.
Il vecchio Nat, per gli amici, presto sarà il manager della ditta e tutto andrà per il giusto verso. Per ora deve ancora obbedire a quel rimbambito che, lo sa bene, lo ha già designato come suo successore. E a quel momento la pubblicità negli States prenderà una strada nuova, senza ritorno. Per adesso si contenta di fare il vice. E' certo che la cordata che ha scelto sia quella vincente: nella sua carriera non ha mai fatto un passo falso.
Echo torna a casa dal lavoro dopo aver chiuso i cancelli del parco. Racconta agli alberi e agli scoiattoli di quell'uomo bello come un dio greco, che la mattina risplende nel grigiore del bar, irradiando buonumore e simpatia. Gli scoiattoli riconoscono la sua voce e non scappano.
Un'ora di metropolitana per arrivare a casa e Echo si immerge nel bagno caldo dove, per quel poco che può, dà sostanza al desiderio che ha di quell'uomo. Con la mano appoggiata sulla clitoride pensa come sarebbe bello se lui si avvicinasse un giorno dicendole:
«Buongiorno, le lascio il caffè pagato»
«Non si disturbi»
«Per me è un piacere»
«Allora grazie, ma si sieda un momento»
«Il lavoro mi aspetta, ci vedremo stasera.»
E' sulla parola “stasera” che riesce a far coincidere quel colpo di tosse trattenuto che è il segnale del massimo piacere che è riuscita a ottenere dalle sue quattro ossa.
Passa ancora bagnata dalla vasca al divano e si addormenta nuda, sperando di sognarlo. Si accontenta.

Quella mattina Echo arrivò al bar un po' prima e dalla vetrata lo vide salutare una donna, che lo baciò schiacciandogli sul petto un seno che sarà stato il triplo del suo. Il caffellatte venne diluito dalle lacrime, ma quando lui entrò si era già ricomposta, pronta a ricominciare quel gioco innocente. Ma Nat quella mattina era più nervoso del solito e non appena incrociò i suoi occhi le andò incontro con aria cattiva.
La prese per un braccio e la trascinò fuori dal bar. La spinse contro il muro esterno del locale, quello che dava sul vicolo fra due edifici, e la tenne ferma con la mano sinistra. Echo era impaurita.
«Smettila! Cosa cazzo vuoi da me? Vuoi scopare? Vuoi che te lo metta in bocca? Levati dai coglioni brutta imbecille!»
Lui rientrò per pagare e andarsene di corsa. Lei si accasciò su sé stessa, scossa dai singhiozzi. Aveva ragione certo, ma poteva dirglielo diversamente.
Nat arrivò in ufficio imbestialito. Nel momento in cui lui, nel bagno del suo studio, strappava gli slip di dosso alla segretaria lei si lasciava scivolare dal ponte sul fiume, centododici metri di volo neanche durante i quali riuscì a gridare.



lunedì 12 novembre 2018

Padri e figli (2)

Ho appena finito di scopare. Veramente è stato un solo un tentativo. Con la sensazione di sconforto che mi pesa sulle spalle come una coperta militare, mi alzo. «Vado a prendere le Marlboro».
Non sopporto di vederle quel sedere e quelle gambe lardose, splendidi solo per Rubens.
Non dorme, fa finta, così non dobbiamo dirci nulla.
Mi siedo in cucina appoggiando i gomiti sul tavolo di fòrmica e, intanto che mi accendo la sigaretta, mi cade l'occhio sui margini sbeccati, come se l'avesse rosicchiato un castoro. Tossisco più volte, e mi gira la testa. Non sono felice né infelice, solo vuoto come un sacchetto nero della spazzatura. Quelli grossi, in cui puoi anche infilare un cadavere. Anche il fumo aumenta questa sensazione di assenza dei sentimenti. Chissà se questa donna mi fruga nei cassetti del comodino: un giorno o l'altro qualcuna di loro troverà la pistola e ci faremo delle risate.
Lo so che è pericoloso ma le raccatto lo stesso per la strada e me le porto a casa. Loro vogliono soltanto denaro, io conferme. Cedono un'ora di sé stesse: quello che io dico e faccio non gli interessa. In genere non sono neanche belle, né affascinanti. Nemmeno un po' carine.
Chissà se quella di stasera mi ha dato il voto: è abbastanza educata da non sentire la necessità di farmene parte. Io me lo do tutte le volte. Oggi cinque meno ma nei mesi scorsi ho raggiunto anche la sufficienza.
Il mio desiderio erotico è inversamente proporzionale alla capacità di praticarlo. E non è un esaurimento fisico, piuttosto la consapevolezza che non c'è più niente di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità». La Bibbia ha sempre ragione.
Tristissimo. Anche il dover cercare la novità in una donna sempre nuova ma continuamente uguale a sé stessa. Una ricerca imposta dal desiderio ma stroncata sul nascere dalla malinconia, dalla certezza di non essere più capace a trovare “quella” novità.
Chissà che voto mi avrebbe dato mio padre. Una bella testa d'asino a margine del foglio del quaderno – un messaggio per il maestro - è il ricordo più frequente. Stasera la potrebbe disegnare sul lenzuolo.
Non riesco a convincermi che non si può ragionevolmente dire a un bambino “Quali sono i tuoi bisogni emotivi?”. Lui era soltanto consapevole del dovere di insegnare ciò che ciò che a lui avevano insegnato come giusto, e ciò che non lo era.
Non riesco a ricordare in lui, dopo quarant'anni che se n'è andato, un momento in cui mi abbia dato quello che continuo a cercare. Soltanto critiche, rimproveri, “voti”.
Anche io ho avuto un figlio, e la promessa che mi sono fatto è stata quella di essere per mio figlio un padre migliore di quello che lui è stato per me. Che poi non era difficile, nelle intenzioni, sarebbe bastato fare le cose al contrario di come aveva fatto lui.
Adesso mio figlio ha l'età in cui potrebbe avere un figlio a sua volta, e la domanda si rinnova: ma io son stato più buon padre verso di lui di quanto lui, quello che porta il suo stesso nome, lo è stato verso di me?
E' una bella domanda, inutile come la masturbazione che sottende, perché priva di risposta. Ciascuno dei tre partecipanti alla gara, lui, io e il nipote, potrebbe dare risposte completamente diverse.
Lui non risponde più e l'epoca in cui ha vissuto è lontana anni luce, anche se i ricordi più lontani sono quelli più impressi. Il nipote sembra sereno, o forse è solo ciò che mi auguro.
Io resto in mezzo, a baloccarmi con queste stronzate.
Vado a svegliarla. La mia oretta di svago non è finita, magari, con un po' di impegno in più...


lunedì 8 ottobre 2018

Mario

Le domeniche pomeriggio le passava in casa; trovava sempre qualcosa da fare che gli impedisse di pensare: la radio, il totocalcio. Un nuovo giallo, per distrarsi. Mai la televisione. Anche quando veniva invitato a un cinema, a vedere un film non scelto da lui, aveva la stessa sensazione di inappropriatezza, e aspettava che dovesse succedere qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita.
Passava così le domeniche, fumando alla finestra della sua camera, una Camel dietro l'altra, fino a che la tosse non lo sfiniva.
Quella domenica si impose di uscire, senza sapere dove andare. Prese l'autobus numero 1, quello che faceva il percorso più lungo, più di un'ora per arrivare al capolinea. Non aveva niente da fare, e con settanta lire poteva passarsi due o quattro ore. La domenica pomeriggio, dal centro alla periferia, non c'è ressa e puoi sederti.

Lei salì due fermate dopo. A lui, che faceva la seconda classe del liceo scientifico, parve una bambina, ma aveva tredici anni. La prima cosa che notò fu l'acne, un punto d'incontro importante. Chissà dove andava. Un fato cieco gliela fece sedere di fronte. Come sarebbe stato possibile fare finta di non guardarla, ma soprattutto come farsi guardare da lei? Certo non per l'abbigliamento: lui vestiva quello che gli davano e aveva imparato a non farci caso. Ma in quel momento avrebbe voluto portare le scarpe con i fiocchetti, quelle che aveva visto a scuola addosso al suo compagno Grimaldi, che ne faceva sfoggio.
Cosa la poteva interessare in un ragazzo più che ordinario?
Di nuovo il fato gli diede una bella spinta. Mentre la bimba frugava nella borsa le cadde dalle mani un rossetto, complice una brusca frenata del mezzo. Entrambi si chinarono e i loro volti si sfiorarono per un attimo. Mario fu più lesto e prese il rossetto. Lei vide il rossore sul volto di lui nel porgerglielo e non poté fare a meno di ridere. Anche lui rise.
«Grazie!» mormorò.
«Figurati».
Lui il rossore non lo poteva vedere ma il viso bruciava.
«Sono più rosso io o il rossetto?»
«Tu, senza dubbio.»
Dopo tre secondi le chiese: «Cosa fai?»
Come sei bella.”
«Torno a casa, sono stata tutto il giorno in ospedale con mio padre.»
«Sarai stanca.»
Cosa ha questo ragazzo? Mi sembra diverso.”
«No, solo annoiata. Aspetto che lo dimettano. La domenica tocca a me andare da lui.»
E adesso che le dico?”
«Io fra due anni mi iscriverò a Medicina.»
Sono bugiardo ma ne vale la pena.”
«Tu cosa vuoi fare?»
«Non lo so ancora.»
Il passeggero a fianco di Mario, lui non capì neanche se era un uomo o una donna, si alzò e scomparve. Anche lei si alzò, e andò a sedere vicino a lui. Non dovevano più guardarsi negli occhi ma si toccavano, anzi, lei dopo poco si appoggiò a lui con naturalezza.
«Dove scendi?»
«Al capolinea»
Non meno di mezz'ora...”
I pomeriggi invernali perdono presto ogni chiarore.
Come se si fossero conosciuti da sempre lei appoggiò la testa sulla sua spalla e, per qualche minuto, dormì. Mario se ne accorse perché il respiro di lei divenne regolare.
Non ho mai dormito sulla spalla di un ragazzo sconosciuto.”
Gli occhi di lui caddero sul maglione di angora beige, dove spuntava un piccolo seno, ancora acerbo ma in quel momento più che appetibile. Immaginando i capezzoli sentì un bel calduccio in mezzo alle gambe.
«Mi accompagneresti a casa? E' già buio e devo fare un tratto a piedi».
«Certo!»
Son venuto per questo...”
Quando scesero dall'autobus lui, per aiutarla, le porse la mano e lei non gliela lasciò più.
Il gonfiore in mezzo alle gambe cresceva e Mario annuiva senza ascoltare quello che lei gli raccontava, e il desiderio di conoscere il gusto che avrebbe avuto la bocca di lei lo metteva in condizione di non capire più niente.
Si fermò quando vide un muretto, con vista sul porto illuminato. “Stai un minuto zitta”. Provò a baciarla: non l'aveva mai fatto. Per essere la prima volta gli riuscì benino.
Che bravo, chissà quante prima di me.”
Che motivo c'era di smettere? Il piacere aveva stoppato il tempo. Entrambi non volevano pensare.
Mario si sentì tirare giù la cerniera del pantalone ma non smise di baciarla, respirò solo un po' più affannosamente. Quella mano fresca, estranea, non ebbe bisogno di muoversi più di tanto: dopo pochi attimi fu inondata di sperma caldo. La testa di lui cadde sul collo di lei e le diede un piccolo morso. Rideva Mario, nessuno poteva sapere che era la prima volta.
«Quante ragazze hai avuto?», gli disse lei asciugandosi la mano.
«Qualcuna...»
«Anche io.»
Cosa ne poteva sapere lui...
«Dimmi almeno come ti chiami...»
«No. Ti cercherò io.»
Sara entrò nel portone.



venerdì 14 settembre 2018

Tom e Scarlett

Tom restò per un attimo a bocca aperta. Non ci credeva, non poteva essere possibile. Non capiva come fosse possibile. Non era mai successo e avevano fondato tutta la loro vita sul fatto di essere soltanto in due. Niente pannolini.
«Ma è meraviglioso!» balbettò.
«Sai che io sono precisa come un orologio svizzero.»
«Sono felice» le disse, dandole improvvisamente le spalle.
Questo cambiamento, inatteso, lo irritava.
Fino a quel giorno avevano girato in lungo e in largo il Midwest, con quella macchina un po' scassata, la “loro” macchina. Tom era un rappresentante di amido per il bucato e, se voleva guadagnare qualche dollaro doveva girare senza posa. Tanti kilometri tanti dollari. Scarlett si era adattata a quella vita vagabonda, l'aveva fatto con amore. Stare in macchina tutto il giorno aveva il suo fascino, fatto di libertà e di lunghe strade vuote.
Scarlett era il soprannome che le aveva dato lui la prima volta che l'aveva vista uscire da scuola, con un rossetto di un colore così acceso che l'aveva fatto fremere di desiderio. Avevano tutti e due tredici anni.
L'ostetrico a cui si rivolsero aveva l'aspetto e i modi di un veterinario ma fu il primo che trovarono. La visitò con così poco garbo che la fece gridare: Tom gli avrebbe tirato due ceffoni. «Cara Signora, per la conformazione del suo utero le consiglio vivamente un riposo assoluto. Per lei il rischio di abortire è alto.» Uscirono dallo studio piangendo: questa notizia mandava a monte tutta la loro vita. E anche i venti dollari che avevano dovuto sborsare non li avevano messi di buon umore.
Si trattava di trovare un albergo, perché non avevano una casa: la macchina era la loro casa. Lui avrebbe continuato a girare in macchina, ancora di più, per poterle pagare la stanza.
Scarlett continuava a piangere in silenzio. Aveva una voglia terribile di una Camel senza filtro ma il medico era stato categorico: «Le sigarette le dimentichi.» Si era dimenticato, forse, di dirle che anche l'alcool fa male al feto.
L'albergo lo trovarono nel Nebraska, a Battle Creek. Il Norfolk Country Inn non era una topaia ma aveva comunque un sentore di tristezza. Poco meglio di un motel. Appena entrato Tom notò sul copriletto una bruciatura di sigaretta. L'odore delle camere era quello dell'insetticida. Una televisione su di un tavolino ai piedi del letto matrimoniale, troppo piccolo. Un bagno angusto, con mattonelle bianche opache. La prima notte dormirono insieme, dopo aver comperato una cassetta di birra ed essersela finita, una bottiglia dopo l'altra, guardando il David Letterman Show. Non ebbero rapporti sessuali, cosa per loro abbastanza inconsueta.
La mattina dopo Scarlett fu svegliata dalla luce che filtrava dagli avvolgibili. Lui era già uscito, evitando a entrambi un saluto spiacevole. Sapeva che per qualche giorno non l'avrebbe rivisto e pianse, ancora coricata. Si alzò per andare a cercare una birra.
Nello specchio del bagno, nuda prima di entrare nella doccia, si guardò di sfuggita. La rotondità della gravidanza non si vedeva ancora.
Uscì dalla camera con indosso solo l'accappatoio, e un asciugamano verde avvolto sulla testa a mo' di turbante. Gli occhi, di quello stesso colore, brillavano sul viso candido. Albrecth, l'albergatore, ne fu impressionato.
Aveva ereditato l'albergo dal padre, che negli anni dieci era emigrato in America dalla Germania, con l'illusione di trovarvi una vita più agiata. Dopo trenta anni passati in quell'albergo, e facendovi tutte le mansioni possibili, il proprietario, non avendo nessun erede, glielo aveva venduto per una cifra simbolica: era contento che il suo albergo non finisse in mani estranee. Il padre di Albrecht aveva continuato a fare la stessa vita, ma da padrone. Ma per poco: dopo pochi mesi era morto, lasciando tutto a quello scioperato del figlio.
«All'una le serviremo il lunch in sala da pranzo» le rispose. «Gradisce qualcosa di particolare?»
«Una bistecca con patate. E la birra.»
La bistecca gliela aveva consigliata l'ostetrico.
Quel giorno era l'unica cliente e Albrecht aveva notato che l'uomo che era arrivato con lei se ne era scappato prima delle sette. Appetibile, anche se il voluminoso accappatoio di spugna ne confondeva le linee del corpo. Chissà se aveva i capelli rossi. Le sarebbe saltato addosso subito ma decise che ci avrebbe provato dopo il lunch. Poteva anche essere una conquista molto agevole.
«Prego, si accomodi» le disse quando arrivò in sala, e le spostò la sedia per aiutarla a sedere. Un paio d'anni di scuola alberghiera li aveva fatti, prima di farsi cacciare, e aveva imparato che fare il cameriere è prima di tutto essere accogliente con i clienti. Con le clienti.
Finita la bistecca, mentre lei si alzava per andare al banco del bar a prendere un'altra birra, lui le sfiorò un seno con l'avambraccio peloso, con un gesto insieme malizioso e noncurante. Scarlett ne fu turbata: non le era mai successo che un altro uomo le dimostrasse interesse: era sempre con Tom. Decise che al prossimo gesto analogo uno schiaffone sarebbe stat risposta adeguata. Figuriamoci se poteva permettere a quel giovanotto alto e biondissimo – non sembrava neanche un americano - di prendersi certe libertà. E poi, non in quello stato.
Ci volle un mese, per accoglierlo nel letto, una sera che aveva bevuto troppa birra.
Tom in quel mese si era fatto vedere solo due volte. Tutte e due le volte il sesso fra loro era cambiato. Lei pensava che lui, consapevole del suo stato, fosse diventato più delicato. Lui aveva perso ogni interesse: il silenzio fra loro lo testimoniava. Tom aveva bisogno di scopare quasi ogni giorno: era per lui una valvola di scarico. Aveva infatti frequentato un sacco di prostitute e aveva fatto anche dei paragoni. Alcune a letto erano certamente meglio di Scarlett. Era arrabbiato, perché quel figlio li aveva distaccati nella loro intimità. Ma non era stato capace di parlarle. Anzi, credeva che i cambiamenti che aveva notato nel comportamento di lei fossero dovuti alla consapevolezza di portarsi dentro un figlio loro.

I giorni e i mesi si trascinavano.
Albrecht e Scarlett erano diventati una coppia e vivevano nell'appartamento del padrone. Raramente Tom tornava, sempre più assente e svogliato.
La pancia cresceva e Albrecht credeva che quel figlio fosse il suo. Gli sembrava che fosse l'unica cosa buona che aveva combinato nella vita. Gli ultimi tempi le faceva tutto – come suo padre – il cuoco, il cameriere, l'uomo delle pulizie. La toccava raramente per paura di nuocere al bambino, limitandosi a masturbarsi accanto a lei, accarezzandola in mezzo alle gambe. Lei era assente.
Pensava continuamente di aver sporcato il figlio con lo sperma di uno sconosciuto, mescolandolo più volte con quello del vero padre. Questo figlio avrebbe dovuto avere anche qualche cosa di Albrecht.
«Scarlett, dobbiamo andarcene,» le disse una sera, prima di coricarsi accanto a lei. «Non voglio più fare questa vita. Ho venduto l'albergo e ho i soldi in banca. Domani alle otto partiamo.»
«Me lo aspettavo.»
Si ritornava in macchina.
Si domandò se lo amava, almeno quanto aveva amato Tom, e come sarebbe stato averlo accanto tutta la vita. Finendo la lattina di birra pensò che anche il bambino avrebbe potuto essere un piacevole diversivo.
«Dammi un'altra birra.»
Il giorno che Ton sarebbe arrivato, chissà quando, non l'avrebbe più trovata. Tutto qui.
La macchina di Albrecht non era né nuova né comoda: ogni asperità della strada la sentiva sulla schiena con una fitta dolorosa.

Tom stava tornando a Battle Creek. Aveva deciso di parlarle, ma non sapeva ancora cosa le avrebbe detto. Forse di tutte le prostitute che aveva conosciuto. Forse che voleva provare a ricominciare, in tre. Forse che aveva deciso di lasciarla per sempre e continuare la vita randagia del commesso viaggiatore. Solitario puttaniere.
Aveva bisogno di parlarle: sapeva che le parole giuste sarebbero spuntate da sole sulle sue labbra.
Arrivò che loro erano appena andati via: il portiere dell'albergo gli disse di essere il nuovo proprietario. Per un attimo Tom ebbe la sensazione di essere caduto in un universo parallelo.

Dopo un giorno di viaggio a Scarlett le si ruppero le acque. Era già buio.
«Mi sono pisciata addosso»
«Ma come?»
«Come credi che sia successo, idiota! Trovami un ospedale che ho un mal di pancia terribile.»
Albrecht considerò che l'ospedale più vicino era il Good Samaritan di Kearney. Una ventina di miglia, mezzora.
«Sbrigati! Corri!!»
Lui accelerò. Non voleva che partorisse in macchina.
Avrebbe dovuto cambiare la lampadina del faro destro della macchina ma non aveva mai tempo. Accelerò ancora, lei mugolava dal dolore.
Non prese bene una curva a sinistra, perché la vide all'ultimo momento. La macchina finì nella scarpata. Si fermò, accartocciata, dopo aver rotolato per un centinaio di metri. Non avendo la cintura di sicurezza lui morì sul colpo. Lei si fratturò il cranio ma non morì subito: rimase in coma per qualche ora.
Quando trovarono la macchina, il mattino dopo, erano entrambi morti. Lei aveva fra le gambe un neonato che aveva ancora un soffio di vita.
Tom lo venne a sapere ma non andò mai a reclamarlo.
Il bambino, istupidito da tutte le birre che la madre aveva bevuto, visse inconsapevole di sé e dei suoi genitori, in un ricovero per cerebrolesi.
In macchina Scarlett aveva deciso di chiamarlo Albrecht.

venerdì 3 agosto 2018

Lo zio

Pubblico l'ultimo estratto tratto dal mio romanzo, in dirittura d'arrivo.
A settembre incomincerò a vagare per editori... piccoli e grandi. Buona fortuna a me...


Corinnah, avendo la mattinata libera dal giornale, andò a trovare lo zio. Non lo vedeva da parecchio: era talmente strano che a volte la metteva a disagio. William Croft, fratello di suo padre aveva settantanove anni e viveva da solo in New Jersey. Non avrebbe potuto essere più diverso da Edward: ordinario alla prima impressione ma capace di follie incomprensibili. Simpatico, sempre pronto alla battuta, anche salace. Non aveva mai avuto un gran rapporto con suo fratello ma la sua morte l'aveva colpito profondamente.
In passato era stato il proprietario di un piccolo supermercato, più volte visitato dalla criminalità, e l’ultima rapina era stata l'occasione per chiudere tutto e ritirarsi. A quel tempo aveva già superato i sessanta. Qualche soldo da parte era riuscito a metterlo, e non aveva grandi bisogni. Aveva vissuto sempre da solo, metodico nelle abitudini, con gli anni era diventato ossessivo. Non era giunto al punto di contare i passi ma Corinnah sapeva che se fosse arrivata fra le otto e le dieci del mattino non lo avrebbe trovato in casa: lo zio era fuori a passeggiare, per quanto glielo permettesse l'artrosi alle ginocchia. Suonò alle dieci e tre minuti.
«Ecco la grande giornalista...»
«Buongiorno vecchio pazzo»
«Entra, tanto sei già qui. Ma un giorno o l'altro ti rimanderò in quella tua schifosa New York» 
«Come al solito non ti ho portato niente: non esiste qualcosa che possa farti piacere»
«Sta zitta sciocca donna, le donne non devono parlare.»
L’abbracciò forte, anche se Corinnah notò che la stringeva meno del solito. Come sempre lo zio era molto curato nella aspetto e aveva la barba appena fatta; la camicia bianca di bucato e sopra un maglione girocollo bordeaux di lambswool a coste. Il profumo, che Corinnah adorava, era sempre lo stesso: English Lavender, di Atkinsons. Curava il proprio aspetto lo zio, ma solo per sé. Corinnah aveva rinunciato da parecchio tempo a capire se lo zio avesse mai avuto una donna. O un uomo. Un amore comunque.
Continuando a punzecchiarla la fece entrare, precedendola. Camminava con difficoltà e senza il bastone non ci sarebbe riuscito. Ma quando Corinnah gli porse il braccio rifiutò.
«Invece delle tue sporche birre ti preparerò un karkadé, infuso del fiore dell'ibisco, che tu non conosci ancora. So che ti piacerà.» Lo zio non ricordava, da un anno all’altro, che a Corinnah offriva sempre il karkadé, spacciandoglielo come l’ultima novità proveniente dal vecchio mondo. A Corinnah quel gusto non dispiaceva ma lo doveva bere a occhi chiusi per non vederne il colore. Vecchio vampiro. “Eppure nella tua vita di birre ne avrai vendute tante...”
Erano seduti davanti alla finestra e Corinnah aveva il prato di fronte. Il sole veniva riflesso da ogni filo d’erba ancora bagnato dalla rugiada e il prato luccicava allegramente. Lo zio, al di là delle battute, era dimagrito e pallido.
«Cosa mi racconti di bello?» gli chiese Corinnah.
«Veramente poco. Ho le vertebre marce e mi hanno dovuto mettere un busto. Il dolore è insopportabile. Ho la prescrizione per gli oppiacei ma preferisco farmi le canne. C’è un angolo del prato dove coltivo quella buona, ah ah ah»
«Mi spiace zio.» Sorbì un sorso di sangue caldo a occhi chiusi. Chissà se lo zio sapeva che l’erba buona non si può coltivare. Chissà se qualcuno, in quel quartiere, l'avrebbe denunciato.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Sì, numerose.» Corinnah fu sorpresa: lo zio non aveva mai chiesto niente e lei sapeva che aveva un gran vanto nel farsi tutto da sé.
«Il tempo che mi è stato assegnato sta finendo. Vedo che hai sentito il mio richiamo, portato dalle nuvole.» Non ricordava neanche più che Corinnah lo andava a trovare più o meno una volta all’anno.
«Ti ho preparato una lista di compiti da fare e ti ho dato la firma sul conto in banca. Devo sistemare le mie cose e l’unica che può aiutarmi a farlo sei tu. A te non lascio niente: non hai bisogno di nulla. In questo quaderno c’è la lista delle cose da fare. Poi c’è una persona: sappi che lei è stata la persona più importante della mia vita. Non ti posso chiederle di volerle bene come l'ho amata io ma vorrei chiederti di starle vicino in ogni sua necessità quando io non potrò più farlo. La dovrai cercare non appena resterà sola.» Corinnah posò la tazza, sorpresa. Non sapeva bene cosa dire: sapeva che lo zio era imprevedibile, ma non immaginava fino a questo punto.
«Stai davvero così male? Non hai una cera così brutta», disse sorridendo, cercando di sdrammatizzare.
«So riconoscere l'approssimarsi del capolinea. C’è un momento in cui capisci che proseguire, oltre che inutile, è poco dignitoso. Però è giusto lasciare le proprie cose in ordine: la scrivania della vita è sempre stata un marasma. Adesso è il momento di mettere ogni cosa a suo posto. Si accese tranquillamente la sigaretta.
«Non ti sei mai sposato...»
«Non essere curiosa. Non voglio spiegarti i fatti e le decisioni della mia vita, ti chiedo soltanto di darmi una mano»
«Stai tranquillo. Dimmi solo cosa devo fare»
«Nel quaderno hai scritto tutto. Il giorno dopo la mia cremazione la cercherai.»
Corinnah era triste e nello stesso tempo incuriosita da morire. L’amore segreto... Non l’avrebbe mai detto, anche se lo zio un certo non so che di misterioso ce l’aveva sempre avuto. Chissà che storia c’era dietro... una persona sposata? Single come lo zio? Ma allora perché non vivevano assieme? Chissà com’era stata l'intimità fra di loro: non riusciva a immaginarseli.
Lo zio si alzò dicendole «Se non ci dovessimo più vedere, ma non è certo, sappi che mi hai fatto il regalo più grosso. La mia cenere te ne sarà riconoscente.» Era serio, anche se queste ultime parole le disse in modo un po’ teatrale.
Corinnah pensò “Faccio solo il mio dovere” e gli rispose «stai pur certo che aiutarti in questo momento è per me un piacere.»
Intanto che accendeva la macchina lo vide ritto sulla soglia di casa, col braccio alzato. Lo salutò anche lei, con due colpi di clacson.
Anche questa è fatta,” pensò lo zio. “Corinnah è una brava ragazza, sono tranquillo. Adesso mi resta solo da pensare a me stesso.” Tirò fuori dal frigorifero quell'avanzo di frittata di pasta che si era fatto il giorno prima, ricetta importata in America dopo i suoi primi soggiorni in Calabria, dove andava per le battute di pesca al tonno. Si apparecchiò la tavola come ogni giorno e incominciò a mangiarla, assaporando ogni boccone. Chissà che non fosse davvero l’ultima. Prepararla era sempre stato un grande piacere. Berci sopra un buon vino Savuto di Calabria sarebbe stata la morte sua. “Sua di chi??” si domandò, ridendo per l'involontario doppio senso.
Alle quattro sarebbe andato al casinò. Avevo organizzato tutto come pensava di dover fare e adesso poteva dedicarsi solo a sé stesso. Prese la busta e mise i soldi nel portafogli. Chiamò un taxi. «Atlantic City. Golden Nuggett.»
Sapeva bene quello che voleva fare: puntare quei soldi sul ventisei della roulette, uno dei due numeri a fianco dello zero, il numero che quando esce fa vincere il banco. Non sapeva invece perché voleva buttare via, così stupidamente, una somma così alta. Buttare via quei soldi era una sua esclusiva pertinenza, era l'estrema affermazione che solo lui era il padrone della sua vita e solo lui poteva decidere cosa farne. E proprio fare qualcosa di inutile, priva di ogni finalità, gli dava ancora la sensazione di essere vivo e vitale: sapeva bene che la realtà era diversa. Rischiare tutti quei soldi includeva anche la possibilità di una vincita incredibile, tre milioni e seicentomila dollari, cosa che avrebbe scombussolato tutti i suoi piani. Gli avrebbe dato anche la dimostrazione che esisteva la possibilità di guarire...
Rischiare... Ricordava bene lo zio quel periodo della sua vita di adolescente in cui aveva fatto quel gioco assurdo... Stupido solo come si può esserlo a quindici anni... Buttarsi a capofitto da una discesa che terminava in un incrocio, con una bicicletta a cui aveva tagliato i freni per evitare ripensamenti dell’ultimo attimo, con il cervello annebbiato dall'alcool. Solo rischiare la vita lo faceva sentire completamente vivo. Questo gioco spaventoso era terminato quando qualcuno, che lo aveva visto per caso, aveva informato suo padre di questo genere di imprese e il buonuomo, terrorizzato, gliene aveva date tante da fargli perdere ogni forza di uscire di casa per quindici giorni, durante i quali si era convinto a cambiare gioco. Non si rendeva conto di essere vivo solo per un caso.
All’ingresso del casinò si fece cambiare i soldi e, arrivato al tavolo della roulette, posò tutte le fiches, bene impilate, sul numero ventisei. Erano dieci fiches da diecimila dollari ciascuna. Gli altri giocatori lo guardavano con curiosità, qualcuno con ammirazione. Il croupier diede un colpo alla ruota e lanciò la pallina. Tre, quattro giri forse, qualche salto fra i numeri. La pallina si fermò dentro la casella dello zero e si sentì un mormorio di disappunto. Lui l’aveva in un certo senso previsto, c’era andato comunque molto vicino. Con lo stesso aplomb con cui era arrivato se ne andò.
Giunto in strada aspettò che il semaforo fosse rosso per i pedoni e, richiedendo l'ultimo sforzo alle sue ginocchia, si tuffò tranquillamente sotto il primo autobus.





giovedì 28 giugno 2018

Gilda


Quando in Istituto arrivava il momento della pausa pranzo Gray spariva per un'ora e andava a trovare la moglie del Rettore, che aveva conosciuto per caso a una festa dei diplomi.
Erano seduti vicini e lei, mentre il Rettore presentava i neodiplomati, gli aveva detto "E' mio marito!". Il dottor Gray, visto soprattutto il generoso decolletè, le aveva risposto "Un discorso splendido!", anche se non ne aveva ascoltato una parola. Era presente a quella festa soltanto per congratularsi con una giovane studentessa di colore a cui aveva dato alcuni chiarimenti per la tesi, oltre alla lettura finale. Era convinto che quella tesi non dicesse niente di nuovo ma il fondoschiena della ragazza lo aveva stregato. C'era anche stato un approccio che lo faceva ben sperare ma la ragazza era stata furba, fermandolo con decisione prima che le cose diventassero inevitabili. Dopo essere andato a farle gli auguri - lei lo presentò anche alla famiglia - portò un calice di champagne alla moglie del Rettore, approfittando di un momento che gli sembrava sola. Lui era dall'altra parte della sala, assediato dagli studenti.  "Grazie dottor Gray" "La prego, mi chiami Henry" "Anche tu, chiamami Gilda". Gilda, l'Atomica, Rita Hayworth. La chioma rossa era identica. "A noi" disse alzando il bicchiere "A noi". Gray la squadrò mentre sorseggiava. Non giovane ma ancora parecchio intrigante. Un seno generoso esposto senza pudore. "Cosa fai domani a pranzo, Henry?" "Il solito panino stantìo, direi" "Vieni da me. Ti farò conoscere l'insalata caprese. Ti piacerà" "Non potrò prima dell'una" "Perfect".
La mattina dopo Gray uscì prima dall'Università per andare da Van Leeuwen Artisan Ice Cream a Brooklyn. Gli avevano detto che era il miglior gelatiere di New York e voleva fare una bella figura. Infatti la torta gelato non era proprio a buon mercato ma quel giorno non voleva sembrare avaro.
Suonò il campanello della casa del Rettore, sulla 110a West. Vicino al lavoro, naturalmente. E se gli fosse venuto ad aprire il Rettore? Era questa la paura che gli aveva impedito di comperare dei fiori. O se fosse venuto più tardi? Nell'istante dell'attesa desiderò sparire. La possibilità di compromettere definitivamente la sua carriera accademica era reale. Le paure si dissolsero nel momento in cui lady Gilda aprì il portone "Accomodati Henry". Anche con la veste da casa il seno, prorompente, era largamente esposto. "Deve essere il suo orgoglio" pensò Gray "E anche la sua arma".
In casa non c'era nessuno, il personale di servizio usciva alle dodici e tornava alle diciassette.
Gray si era documentato sull'insalata caprese, per non fare la figura dell'ignorante in materia culinaria, e sapeva che, in un piatto composto solo da pomodoro e mozzarella italiani ciò che contava era l'eccellenza degli ingredienti. E il piatto che la donna gli portò era eccezionale. Pomodori giganteschi e carnosi "Li faccio venire da un paese piccolissimo della Calabria, Belmonte Calabro. Il suo terroir e il microclima sono unici al mondo. La mozzarella la faccio venire da Sperlonga, nell'Italia centrale, vicino a Roma. Con l'aereo e la confezione sottovuoto arriva in giornata in condizioni perfette. Il basilico viene da Sorrento e l'origano dalla Sicilia. Viene raccolto vicino al tempio di Segesta".Gray restò trasecolato dal sapore e dal racconto. Non osò immaginare il costo che questo piatto poteva avere. "Gilda, non so come ringraziarti. Mi hai portato qualcosa di così buono e così particolare che sono certo che non ne mangerò di simili in vita mia". Oltretutto la porzione era molto abbondante. Gilda gli sorrise con aria di complicità. "Vieni,dottor Gray": rimarcò il cognome con enfasi. "Andiamo a prenderci il caffé sul sofà". Chissà che fine aveva fatto la sua torta gelato. Anche il caffè era buonissimo: aveva un sapore particolare che Gray non aveva mai sentito. "E' il kopi luwak". Mentre sorseggiava il caffé Gilda gli posò una mano sulla coscia, nella metà più vicina all'inguine. Lui posò la tazzina e le accarezzò il seno, sfiorandole il capezzolo. "Vieni, voglio star comoda". Non aveva molto tempo, Gray, ma lo spese al meglio. Quando la donna lo vide senza slip, pronto, ebbe un fremito, pregustando l'attimo in cui, di lì a poco, sarebbe stato parte di lei. Le piaceva fare l'amore e quel cretino di suo marito, il Signor Rettore, sposato per convenienza di entrambi, non l'aveva mai capito. Raro e frettoloso. Assolveva a uno dei suoi tanti doveri senza alcun interesse. Senza gioia. Gilda aveva bisogno di ben altro. Era originaria dell'Ecuador, caliente.
La prima volta fu, per entrambi, un'esperienza meravigliosa; il fascino della novità, che nel giro di qualche mese si sarebbe smorzato. Gray le piaceva molto ed era certa di piacere molto anche a lui. Lo dimostrava la forza con cui la penetrava. Non si domandarono mai se fra loro ci fosse stato il sentimento dell'amore. Ne avevano paura, perché avrebbero dovuto comportarsi di conseguenza e cambiare drasticamente le loro vite. Cosa che non avevano alcuna intenzione di fare.
Si avvicinava il giorno del concorso per il posto di assistente di ruolo. Quando fu il momento Gilda, consapevole che non l'avrebbe più rivisto, gli disse soltanto "Stai tranquillo, Henry. Mi mancherai". Lui le diede l'ultimo bacio e la strinse forte a sé. Quel seno non l'avrebbe dimenticato tanto facilmente.
Per mesi si erano divertiti tutti i giorni.Si erano usati, consapevolmente, con grazia.



venerdì 8 giugno 2018

Sean e Gray

Gray abitava al terzo piano, senza ascensore e con scale buie. Sean si aiutò con la torcia del cellulare per trovare la targa sulla porta. Spinse il bottone del campanello per una frazione di secondo. Era atteso, la porta si aprì subito. Nella penombra riuscì a distinguere soltanto un uomo molto più alto di lui. “Sono Sean”. ”Entri, la stavo aspettando”. Gray si fece da parte e con un gesto amichevole lo invitò ad entrare. La luce era poca anche dentro, data da un paralume grigiastro appoggiato su una scrivania di legno. Si sentiva il brusio della radio accesa in un'altra stanza. Tutto era triste. Polverosi ritratti di donna erano appesi alle pareti di quell'ambiente che era un'entrata, uno studio e, vista la presenza di un divano di pelle sfondato, anche un soggiorno. Un odore di finestre chiuse da troppi giorni. Si sentì sfiorare una caviglia e fece un sobbalzo. “Non si preoccupi di Tobith, è solo affettuoso. E' il suo modo di conoscere e di presentarsi agli sconosciuti”. Sorrideva, un po' divertito. “Si accomodi. Caffè o birra?”. Si avvicinarono entrambi alla poca luce e Sean lo poté guardare meglio in volto. Capelli una volta rossi non tagliati da mesi e non pettinati, sporchi, due baffoni grigi, occhi opachi, un'aria depressa che contrastava con il tono amichevole che il Professore si sforzava di dimostrargli.
Anche il Professore scrutava Sean con curiosità e diffidenza, un bell'uomo, non alto ma atletico, ben più giovane di lui e con un'aria da volpe braccata da una torma di cani insaziabili. Chissà cosa cazzo aveva combinato: quella dello sfratto non se l'era certo bevuta... “Birra, grazie”. “Gelata, naturalmente”. “Naturalmente”.
L'ambiente era deprimente ma sembrava sicuro, ed era questo quello che Sean cercava.
Il Professore arrivò con due bottiglie di Budweiser. “Ne ho il frigo pieno. Beva liberamente”. E una birra ci voleva davvero: gli diede il rilassamento di cui sentiva bisogno. “Con le birre ci potremmo fare due spaghetti”. Gray voleva essere sinceramente amichevole e Sean non aveva mangiato tutto il giorno. La parola “spaghetti” gli ricordò il borbottio del suo stomaco. “Dipende” rispose ridendo, “Lei cucina bene? Io non sono capace”. “Vorrà dire che mi farà da secondo”.
Si spostarono nella cucina, non troppo pulita. “Il sugo di tonno le può andare?”. “Sarà perfetto”. “Allora incominci ad affettare questa cipolla”, e gli mise in mano un coltello che sembrava una baionetta. Era contento, Gray, cucinare solo per sé era sempre tristissimo. E Kate spesso lodava i suoi piatti. Un filosofo italiano, matto come un cavallo, gli aveva insegnato a fare il risotto e lo faceva spesso a Kate, che adorava quello con i funghi secchi.
“Da quanto conosce Corinnah?” chiese improvvisamente il Professore, aprendo con difficoltà la scatola dei pelati, anche essi italiani. “Da pochissimi giorni. Non credo di avere mai incontrato una donna così, eppure ho viaggiato a lungo. Donne ne ho conosciute e non mi sono mai lasciato sfuggire un’occasione. Ma è bastata una serata insieme per capire che avevo trovato la mezza mela da cui Zeus mi aveva separato. Il fatto che fosse la donna di mio fratello non mi ha certo frenato. Lui per un caso del destino me l'ha presentata e adesso penso che per lei potrei lasciare tutto, e scappare, insieme. Per provare a ricominciare...”.
Il Professore fu sorpreso da questa dichiarazione d'amore, e anche dalla citazione del Simposio di Platone, stimolate, a suo modo di vedere, solo da una mezza bottiglia di birra. Anche Sean era stupito di sé: si domandò se in quella birra Gray ci avesse messo il siero della verità.
Buttò gli spaghetti nell'acqua bollente e si finì la birra. Una mezzora sorprendente, passata a cucinare con uno sconosciuto.
Dopo mangiato tutti diventano più chiacchieroni.
“Io Corinnah l'ho conosciuta più di dieci anni fa. Sono stato il suo professore di storia della filosofia alla High School. Un'alunna di grande soddisfazione: vinse anche la borsa di studio per la Columbia. L'ho incontrata per caso ieri che correva in Central Park. E abbiamo ricordato i bei tempi...”. “Chissà come era Corinnah da ragazza” pensò Sean, e poi di accorse di averlo detto. “Non più bella di adesso. Solo più acerba...”. Sean invidiò il Professore: avrebbe voluto esserci anche lui a vederla ragazzina.

venerdì 18 maggio 2018

Corinnah

Quando, due anni prima, aveva fatto le vacanze ad Agadir, in Marocco, fece un'escursione di due giorni ai margini del Sahara. Man mano che la carovana, lentamente, seguiva la pista, Corinnah percepiva intorno a sé un silenzio sempre più denso.
Era come essere circondata da un nuovo mare, non più blu e meno mobile, ma altrettanto affascinante. Portatore di pace infinita; la stessa sensazione di assoluto che solo poche spiagge, dopo il tramonto, le avevano dato.
Col passare delle ore l'aria era diventata così calda e asciutta, nonostante fosse maggio, che Corinnah si sentiva soffocare. La carovana si era fermata in un’oasi, una ventina di grosse tende, alcune collegate fra loro da piccoli passaggi. Un pozzo. Due palme. Nel momento di maggiore calura l'ombra che davano le tende e la corrente d'aria che riuscivano a creare la aiutarono a respirare.
Mangiare con i Tuareg fu piacevolissimo: Corinnah comprese che per mangiare assieme non c'è bisogno di parlare la stessa lingua. La lingua condivisa è il cibo. Per offrire un piatto non c'è bisogno di parole. Per assaggiarlo, gustarlo e apprezzarlo basta la tua espressione di curiosità, di gioia e di gratitudine.
Quello stufato di montone con il cus cus fatto dalle donne, con la giusta dose di spezie – quante volte Corinnah aveva dovuto buttare via con rimpianto una pietanza resa immangiabile dalle troppe spezie che ci aveva buttato dentro – era delizioso, e per mesi ne aveva serbato il sapore, che riusciva distintamente a recuperare al solo pensiero. Il suo compagno di viaggio, e cavaliere, non era riuscito a emozionarsi per quel piatto e Corinnah ne era rimasta delusa.
Le donne dei Tuareg mangiavano separate, dopo gli uomini che mangiavano con gli ospiti: Corinnah ne era infastidita perché la trovava una cosa ingiusta, anche se aveva notato che quelle ragazze trovavano la cosa assolutamente normale.
La sera, dopo una corsa sui cammelli fra le dune spostate dal vento, la cena, fuori dalle tende, era stata più ricca, illuminata da piccoli falò. Le ragazze avevano ballato e dopo poco Corinnah si era unita a loro. Le piaceva ballare, cosa per lei naturale. Era armoniosa e spontanea nei movimenti e aveva presto imparato i gesti del loro volteggiare.
Quella notte andarono a dormire tardi, con l'accampamento illuminato soltanto dai bagliori delle braci che si stavano spegnendo. Era spossata: aveva ballato per ore e aveva perso la nozione del tempo. L'orologio l’aveva lasciato a New York.
Nel sacco a pelo si girava senza riuscire a prendere sonno: doveva smaltire l'eccitazione che la danza le aveva portato e che il té forte aveva rinforzato. Il compagno di viaggio, sdraiato al suo fianco, russava leggermente, a intervalli regolari. Un caro ragazzo e un buon giornalista, nulla di più.
A un tratto, mentre il cielo incominciava a schiarire, sentì intorno a lei dei sospiri inconfondibili. Non avrebbe saputo dire da dove venivano: erano intorno a lei. Sulle prime le venne da ridere: le tende non sono l'ideale per la privacy. Ma non riuscì a distogliere l'attenzione. Si chiese quale delle ragazze che avevano danzato con lei potesse essere; tutte erano molto belle e ognuna poteva regalare a un uomo una notte d'incanto.
La frequenza e l'intensità dei sospiri aumentava. Quello della donna più lentamente, quello dell'uomo a poco a poco diventava un grido trattenuto.
Corinnah fu presa da una frenesia incontenibile. Mise la mano dentro il sacco a pelo del compagno di viaggio e sorrise, immaginandosi il sogno che stava facendo. Si avvicinò alla sua bocca e gli diede un morso sulle labbra; con un secondo morso lo svegliò; gli impedì di parlare mettendogli la lingua nella bocca. Aprì completamente la cerniera del sacco a pelo e gli saltò sopra. Si era già sfilata gli slip. Lui era completamente sveglio: incredulo di tanta fortuna non si tirò indietro. Corinnah, sollevata sul corpo di lui, incominciò a ondeggiare con lo stesso ritmo dei sospiri che sentiva intorno. Ascoltavano in silenzio la voce soffocata del piacere intorno a loro e la fecero propria.
Al mattino Corinnah era convinta di avere sognato, non solo lei.